Basta celebrare i caduti di irredentismo e colonialismo fascista!

Anche quest’anno il Covid ci risparmierà la cerimonia con cui alcune associazioni combattentistiche e il Comune di Ronchi dei legionari celebrano Ugo Polonio e Ottone Pecorari ricordati con delle lapidi a Vermegliano.

Queste celebrazioni non hanno niente a che vedere con la pietà per i caduti. Pietà e dolore sono delle emozioni la cui strumentalizzazione politica fa parte del tentativo di imporre una memoria condivisa in cui tutti i morti – che diventano sempre e solo vittime – sarebbero uguali a prescindere da ciò che fecero in vita o come morirono.

Ricordando pubblicamente Polonio e Pecorari indirettamente celebriamo gli ideali che li hanno animati, condividiamo le ragioni di quelle guerre, eppure irredentismo e colonialismo non meritano nessuna celebrazione.

Vermegliano 1921 inaugurazione lapide a Ugo Polonio

Ma chi erano costoro?

Ugo Polonio fu un irredentista triestino che morì nei primi scontri a cui prese parte sul Carso sopra Vermegliano. Dalla lettera che gli venne trovata addosso diretta al padre si evince la sua visione politica sintetizzabile in “Dio, patria e famiglia” che sarebbe diventato uno degli slogan del fascismo. Non è difficile immaginarlo vicino a quella corrente di irredentismo che avrebbe trovato ampio credito e adesioni in epoca fascista assumendo un tratto fortemente discriminatorio e razzista, che ebbe il suo massimo rappresentante in Ruggero Timeus, anche lui triestino e noto per il suo feroce antislavismo.

Il monumento dedicato a Polonio a Vermegliano (o Romjan: borgata da sempre abitata da una nutrita componente slovena) venne (im)posto nel 1921: l’anno in cui il fascismo di confine iniziò a colpire duramente comunità slovene e movimento operaio anche nel territorio monfalconese. Nel 1929 venne sostituito da un cippo in pietra, eretto dall’Opera nazionale balilla di Trieste. A Ugo Polonio è intitolata anche la caserma a Gradisca d’Isonzo che dal 2006, con diversi nomi (CPT-CIE-CPR), è stata convertita in campo di concentramento per migranti.

Ottone Pecorari morì nel febbraio 1936. Si trovava sulle alture del monte Amba Aradam in Etiopia dove l’esercito fascista italiano guidato da Pietro Badoglio stava combattendo per la conquista dell’impero. Nel corso della battaglia dell’Amba Aradam vennero usati gas come l’iprite, un gas vescicante rilasciato a bassa quota dall’aviazione dell’esercito regio italiano, anche sui civili. A terra, i soldati (tra cui Pecorari) spararono proiettili all’arsina e al fosgene, fortemente tossici. Di fatto, si tratta di una evidente, ma rinnegata per decenni, violazione della Convenzione di Ginevra del 1928. L’iprite attacca le cellule con cui entra in contatto, distruggendole completamente. Causa infiammazioni, vesciche e piaghe, agisce anche sulle mucose oculari e sulle vie polmonari. La sofferenza è disumana. Nel luglio del 1936 l’imperatore deposto, Hailé Selassié, denunciò tutto all’assemblea della Società delle Nazioni. L’Italia riconoscerà le sue colpe solo nel 1996, ammettendo l’utilizzo di armi chimiche in Etiopia.

La lapide che ricorda Ottone Pecorari venne posta nell’immediato e turbolento secondo dopoguerra nel monfalconese. Una evidente provocazione. A poche settimane dalla sua inaugurazione ignoti bruciarono le corone di alloro poste sulla lapide.