Monfalcone: la centrale termoelettrica cambia?

da Konrad n. 220, ottobre 2016 p. 6

Dopo 70 anni di carbone, olio combustibile e biomasse, davanti a fuoriuscite anomale e a un accertato traffico illecito di rifiuti legato alla criminalità mafiosa, la centrale termoelettrica di Monfalcone volta pagina?

illustrazione di Renato Trevisan

È prevista la riconversione dei due gruppi a carbone finalizzata a un graduale processo industriale sostenibile, in sintonia con le linee guida dettate dal nuovo Piano Energetico Regionale. “Sarà un futuro senza carbone, quindi green e pienamente sostenibile” rassicura l’Assessore regionale all’ambiente Sara Vito, originaria della zona.

Sappiamo che il carbone non sarà produttivo per molto perché è un fatto accertato che la catastrofe climatica sia provocata dall’uso dei combustibili fossili. Anche la Cina sta chiudendo le centrali a carbone. Corre voce che il carbone verrà poderosamente tassato in un futuro prossimo, diventerà antieconomico: che ci sia anche qualche considerazione di profitto nella svolta green, come la definisce Vito con un’anglofilia terminologica sempre più presente nel discorso politico nostrano?

La proprietà dell’impianto (la bresciana A2a l’ha ceduto a A2A Energie future S.p.A, nuova società creata ad hoc) fa sapere che la riconversione della centrale termoelettrica passerà attraverso l’utilizzo di biomasse a filiera corta.

Resta poco chiaro cosa saranno le “biomasse a filiera corta” da bruciare a Monfalcone.

Il termine “filiera” è stato coniato dall’agronomo francese Louis Malassis e mal si accompagna a quello di biomassa, forse. Quanto corta sarà la filiera non si sa, visto che nel territorio del monfalconese fatichiamo a riconoscere biomasse quali che siano con un buon rendimento energetico.

La Direttiva Europea 2009/28/CE, ripresa da tutta la legislazione seguente, definisce la biomassa “frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall’agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, comprese la pesca e l’acquacoltura, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani”. Questa definizione raggruppa una varietà estremamente eterogenea di materia liquidi ci pare si possa dire che si tratti, in fin dei conti, di “scovazze”. Poi sarà da capire di che natura. Del resto nel nostro Paese siamo ormai abituati ai giochi di parole. Vengono chiamati “termovalorizzatori” anche gli inceneritori: suona meglio, non evoca nocività e la diossina prodotta diventa un effetto collaterale. Sfumature che avvelenano il discorso, oltreché l’aria.

A monitorare le emissioni c’è il tavolo tecnico ambientale sulla centrale che è composto da tutte le componenti coinvolte (Comune, Provincia, Regione, Agenzia per l’Ambiente e A2a) anche se la presenza del solo Sindaco di Monfalcone all’ultima conferenza stampa dà la misura della mancanza di collegialità e di interesse verso questo organo. Durante gli ultimi quattro anni di sorveglianza sulle emissioni non è stata fatta nessuna analisi sui terreni e questo stupisce visti i risultati ottenuti a Trieste per la Ferriera con questo tipo di verifica.Chi vivrà vedrà come si evolverà la storia della centrale. Un aspetto paradossale è che, mentre il Sindaco di Monfalcone e il Presidente della Regione Friuli Venezia Giulia hanno ammesso di essere preoccupate per l’impatto ambientale e l’aumento vertiginoso dei morti dovuti alla combustione del carbone, l’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) per l’esercizio dell’impianto termoelettrico di Monfalcone è prorogata fino al 2025, quando la scadenza originaria era prevista per il marzo 2017.

La “decarbonizzazione”, come è stata chiamata con un brutto neologismo,sarà quindi, a dir poco, molto lenta.


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