Monte Robon: uscita Molotov

Contributo per un post di AM vedi: Il ritorno del Kras/Carsismo molotov, un récit collettivo. «Ripartiamo quando dovremo star fermi!»

Era tempo che cercavamo di organizzare un’uscita collettiva. Sì, ci sono state piccole escursioni sul Carso, ma dopo tempo le nostre aspettative erano quelle di qualcosa di più. L’imposta fissità del lock down primaverile, poi l’estate, il ripiegamento nel privato: ognuno per sé. Ogni tanto qualche messaggio, una telefonata, al massimo un bicchiere al volo con qualcuno. Sempre in attesa di condividere di nuovo i passi, la fatica, un’orizzonte più ampio.

È ancora una volta dal Carso che arriva la chiamata, ma questa volta decidiamo che l’ambiente carsico con cui ci vogliamo confrontare e più in alto e più a nord. Destinazione monte Robon, vetta parte del gruppo del Canin estremo lembo d’Italia verso Austria e Slovenia. La partenza è minacciata da ordinanze e dpcm incombenti. L’infantilizzazione della società è uno dei tratti caratterizzanti dell’epoca Covid. Arbitrarietà dei provvedimenti, paternalismo, regioni divise in colori come fosse un gioco grottesco. Riusciamo alla fine a partire a sole 24 ore dalla trasformazione delle regione in zona arancione con i suoi divieti. Ripartiamo poco prima di dover stare fermi. Per due settimane perlomeno saremo costretti a non muoverci se non per i motivi consentiti. Ma questo da domani.

Non siamo molti, ci sono state defezioni dell’ultima ora. C’è chi ha preferito visitare i parenti prima delle misure restrittive che confineranno ciascuno nel proprio comune di residenza. Divisi in due o tre per auto con partenze da diverse parti dalla regione. Appuntamento a Sella Nevea, località sciistica nata dal nulla, brutta quasi quanto Piancavallo, non-luogo incastonato in una cornice meravigliosa di monti tra il massiccio del Canin e la catena del Montasio. Arriviamo a poco tempo di distanza uno dall’altro nonostante tempi e luoghi sfasati di partenza. C’è chi tra noi ha già subito il controllo degli sbirri nonostante la partenza di buon’ora, presagio del tempo che viene. Saliamo lungo la stretta Val Raccolana dove già i colori puzzano di freddo. Scesi dall’auto sperimentiamo sulla pelle l’aria pungente, mentre tutti insieme indossiamo gli scarponi di gomma dura.

Di fronte a noi un cartello che raffigura un carabiniere con una bambina vestita con gli abiti tradizionali della valle: maschere che incitano al decoro.

Cerchiamo l’attacco del sentiero. Ci troviamo in un piazzale intitolato all’Europa Unita. Leggendo il cartello storciamo il viso in uno smorfia. Oltre due parallelepipedi di cemento che vorrebbero essere alberghi inizia un sentiero che si arrampica nel bosco. Presto la fatica ci scalda. Prendiamo fiato dopo essere saliti un po’. Vediamo nel monte di fronte, sulle pendici del Montasio, in battuta di sole un bosco con una grossa striscia disboscata: cicatrice di un aborto di pista da sci. Già negli anni del boom (che a dire il vero non durarono molto) per Sella Nevea si è capito presto che a 1500 metri era impossibile avere piste innevate per tutta la stagione. A distanza di 50 anni la situazione è peggiorata in modo evidente. Ora le piste sono molto più in alto, ma anche per innevare queste è necessario ricorrere sempre di più alla neve artificiale. È in corso di scavo una nuova enorme pozza che servirà per questo a valle.

La salita prosegue nella vallata trasversale a quella che da Sella Nevea porta al rifugio Gilberti e sella Prevala dove ogni anno si tiene il commercialissimo “No borders festival”. Si tratta di uno dei tanti festival in alta quota che rende queste montagne ora silenziosissime dei formicai brulicanti e chiassosi. Ha un sacco di appeal anche tra gli “alternativi”. Anche Manu Chao vi ha partecipato a sorpresa nel 2019. Questa estate è andato sul Montasio. Mala vida.

Il sentiero diventa a un certo punto una mulattiera militare. Storia del confine. Qui correva il fronte della Prima guerra mondiale. Ricamava la valle. Lo si nota ancora a distanza di più di un secolo. Qua è là resti di casermette, fortini, trincee, osservatori. Saranno ben evidenti man mano che ci avviciniamo alla vetta.

Si sale verso l’azzurro del cielo e con a fianco il bianco della neve. Giornata meravigliosa. Proseguiamo tra saliscendi in un profondo silenzio rotto solo dal profumo di altr escursionist che incrociamo. Sopra di noi iniziano a vedersi le rovine delle fortificazioni e spicca il rosso del bivacco Modonutti-Savoia. Questa volta non si tratta di un tributo a quella che fu la casa reale, ma è un nome che viene dalla valle con la sua dedica alla memoria di Stefano Modonutti e Luigi Savoia, speleologi udinesi che persero la vita negli anni ’80 durante un’esplorazione subacquea della grotta di Cala Fetente a Palinuro, in Campania.

Prima della arrivo in vetta si nota tutta l’essenza carsica del terreno. Pare di essere a casa: è come il Carso, solo più incazzato. Striature sulle rocce, strapiombi, foibe.

A colpire è il più completo e profondo silenzio, rotto solo da ronzio di un drone che rotea attorno alla vetta. Smette poco dopo e l’emozione in vetta esplode. Sarà l’orizzonte ambio oppure l’aria, sarà l’aver condiviso passi o la consapevolezza che la per la prossima uscita chissà quanto dovremo aspettare.

Subito sotto di noi altre trincee e casematte sfasciate frutto del culto della vetta per i generali italiani della prima guerra mondiale. Servirono a poco quando il fronte venne sfondato a Caporetto.

Franz sintetizza il pensiero di tutti: “Bisogna essere stronzi a metter confini quassù”.

Rientrando mesti a valle, quanto più avanziamo verso il piano dall’aria gravosa e morta, per inoltrandoci nelle nostre città tumultuose, case su case in cui presto saremo rinchiusi, sale la rabbia.

E quindi sarà di nuovo fuga, evasione, cammino, libertà. Alla faccia della zona arancione, dei divieti e dei lock down più o meno leggeri.