Ronchi dei Partigiani (o dei Legionari?) Storia di un nome

Su A rivista anarchica
anno 50 n. 445 – estate 2020

Il volume Ronchi dei partigiani, toponomastica, odonomastica e onomastica a Ronchi e nella “Venezia Giulia” (edizioni Kappa Vu, Udine 2019, pp. 224, € 14,00) è un’acuta e utilissima provocazione. Il sottotitolo dice che il libro raccoglie gli atti di un convegno svolto nel 2014 a Selz di Ronchi dal titolo “Di cos’è il nome un nome”.
Ecco, la provocazione risiede proprio in questo, nel fatto cioè di sottoporre a critica quello che per i più è naturale e ovvio: i nomi delle strade che percorriamo, dei luoghi dove viviamo, dei monti e dei fiumi, testimoni perenni della nostra esistenza. Se una cosa davamo per scontata era che si chiamassero come avevamo imparato a conoscerli da bambini.
Ricordo che per me scoprire che Poggio Terza Armata non era il vero e unico nome del paesino davanti al quale passavo tutti i giorni e che in realtà il suo nome era, nel migliore dei casi, l’italianizzato Sdraussina o in realtà lo sloveno Zdravščine è stato per me una rivelazione deflagrante, come quando si viene a sapere del tradimento di una persona cara e si intuisce la lunga serie di bugie che lo hanno preceduto.
L’italianizzazione forzata dei nomi fatta dai fascisti ha segnato per sempre la cultura del territorio, il modo di vedere le cose, il senso comune. Non parliamo infatti di un’evoluzione naturale, di un accumularsi di culture stratificate, ma di un reciso colpo di spada, di un atto violento di snazionalizzazione che è entrato come un veleno nel senso comune delle successive generazioni.
Il nazionalismo si inocula così, facendo intendere ai bambini che tutto il paesaggio intorno è italiano e anche oltre confine gli sloveni preferiscono la nostra dolce lingua alla loro e chiamano le cittadine Aidussina, Villa del Nevoso, Salcano, abbandonando le più aspre Ajdovščina, Solkan, Ilirska Bistrica. Ai bambini, almeno a quelli della vecchia generazione, implicitamente veniva insegnato che la superiorità italiana era evidente e naturale. La pistola fumante era il fatto che i grandi letterati e filosofi avevano un nome in parte straniero ma in parte italiano, come Carlo Marx, Federico Hegel, Isacco Newton.
Per quanto riguarda l’odonomastica, Marco Barone ha più volte messo in rilievo il fatto che un goriziano vive in una città in cui i nomi delle strade sono dedicate a battaglie e a generali della prima guerra mondiale, dal comportamento spesso poco onorevole. Non c’è una via a Gorizia che ricordi la Resistenza o il 25 aprile. Essere circondati da una esaltazione così acritica del primo conflitto, dell’inutile strage di centinaia di migliaia di proletari italiani mandati in trincea, non è affatto indifferente alla costruzione del senso comune.
Il volume nasce dal lavoro di un gruppo di ricerca chiamato Ronchi dei Partigiani teso a demistificare e a respingere l’immagine di una cittadina per nulla partecipe dell’impresa del vate – da Ronchi non partì alcun legionario – e che al contrario pagò alla Resistenza, come ricorda Meneghesso, un prezzo altissimo con 168 morti o dispersi tra il 1943 e il 1945 e 53 deportati, di cui 26 non fecero ritorno, su una popolazione di poco più di 8000 abitanti.
Nell’intervista fatta da Barone e Meneghesso a Boris Pahor, il famoso scrittore sloveno afferma che a Ronchi D’Annunzio “salì solamente sulla sua automobile”, dopo aver passato la notte ospite del podestà Alessandro Blasig.
Fin dall’introduzione Luca Meneghesso ci avverte che l’impresa di Fiume altro non fu che un atto violento e colonialista organizzato da Gabriele D’Annunzio nel 1919, per opporsi alla cosiddetta “vittoria mutilata”. Il vate, ferocemente antislavo, che chiamava “luridi croati” e “schiaveria bastarda” i popoli della penisola balcanica – come scrive Marco Barone nel suo saggio in cui mette in evidenza gli scopi nazionalisti e revanscisti dell’impresa fiumana – oggi viene esaltato per la sua carica eversiva e anticonformista, quando i tratti del pensiero di D’Annunzio furono l’imperialismo e il superomismo contigui al fascismo.
Il gruppo di ricerca ha portato a casa l’importante risultato di revocare la cittadinanza onoraria a Benito Mussolini, anche in considerazione della presenza di una componente slovena sul territorio limitrofo.
Sul passato plurilinguistico, sloveno e romanzo del territorio, si sofferma il saggio di Maurizio Puntin, che distingue paesi dove prevaleva la componente slovena come Turriaco e Redipuglia, da quelli dove a prevalere era l’elemento italiano, come Ronchi e Monfalcone, ma in proporzioni tutte ancora da verificare.
Alessandra Kersevan illustra come il termine “Venezia Giulia”, coniato dal glottologo Graziadio Isaia Ascoli nel 1863, dopo la terza guerra d’Indipendenza e l’acquisizione di terre con una forte componente slovena come le Valli del Natisone, sia stato utile culturalmente e politicamente a sottolineare l’italianità e la romanità di un territorio da sempre abitato da diverse popolazioni. “Venezia Giulia” è dunque un nome che cerca di riportare ad unità la molteplicità delle culture e delle provenienze dei diversi popoli.
Il saggio di Piero Purich, documentato e approfondito, risulta davvero esilarante nella lettura. Con un’ampia carrellata sui mutamenti dei nomi di tante località italiane, ci dimostra la variabilità della toponomastica che si è adattata ai diversi rapporti di forza, al mutamento dei poteri, all’autorità dei potenti con continue captatio benevolentiae dei più forti. È il caso, ad esempio, del paese che diede i natali all’anarchico Giovanni Passannante, attentatore di Umberto I nel 1878. Il comune, per dimostrare la sua vergogna di essere legato al pericoloso delinquente, mutò il suo nome da Salvia di Lucania a Savoia di Lucania.
Lo scrittore Wu Ming 1 evidenzia la rimozione del massacro che fu la prima guerra mondiale con un’opera di monumentalizzazione e di nascondimento delle motivazioni politiche del conflitto. In modo pertinente lo scrittore afferma che togliere da Ronchi il suffisso “dei Legionari” non è una sorta di damnatio memoriae, ma è un gesto che al contrario ristabilisce la verità storica.
Concludono il volume una serie di Appendici utili a comprendere il contesto storico che consentì la costruzione del monumento a D’Annunzio nel limitrofo comune di Monfalcone nel 1960.
Per concludere, il compianto presidente di ANPI Silvano Bacicchi ricostruisce la vera identità di Ronchi come luogo centrale dell’opposizione al fascismo e descrive quello che è stato uno dei primi e dei più importanti eventi della Resistenza italiana: la Battaglia di Gorizia, che vide gli operai del Cantiere marciare a piedi da Selz di Ronchi a Gorizia, nel tentativo di fermare l’occupazione nazista del territorio dopo l’8 settembre.
Lo scontro armato vide italiani e sloveni combattere assieme e fu la data d’inizio di una delle più importanti e interessanti Resistenze europee, dove fu decisiva la volontà di affrontare i conflitti nazionali, che pure esistevano e pesavano nei rapporti tra italiani e sloveni dopo il ventennio fascista.
Una storia difficile, sanguinosa e contraddittoria ma affascinante, che trovò in Ronchi dei Partigiani uno dei luoghi privilegiati del suo compiersi.

Anna di Gianantonio