UNIVERSO CONCENTRAZIONARIO GLOBALE

 

Da quando nasciamo, da quando siamo concepiti c'è ritmo. È il battito del cuore, un'alternanza di pieni e di vuoti. L'intreccio di ritmi vuole dire anche l'intreccio di pieni e di vuoti, la respirazione e tanti altri elementi. Il suono stesso e il ritmo del suono esigono il poter avere pause, magari piccole, non riconoscibili immediatamente.

L'entrata del ghetto di Varsavia. Il cartello recita: "Area sottoposta a quarantena: permesso di solo transito". Varsavia, Polonia, febbraio 1941. — Bildarchiv Preussischer Kulturbesitz

L'universo concentrazionario vuole eliminare il ritmo, tende a riempire tutto, quindi ad avere un tempo che non è ritmato, che è forzato ad avere una forzatura nelle funzioni. Gli individui perdono i connotati individuali, e nello stesso tempo – credo sia un fatto che verifichiamo tutti i giorni senza sentirlo analogo a quell'universo concentrazionario – c'è una regola dichiarata per far funzionare questo mondo: non può funzionare se non trasgredendo le regole. È una cosa nota nei campi di sterminio per chi viveva dentro e per chi viveva fuori. Il campo di sterminio ha regole ferree; è anche a volte stato presentato come una “macchina infernale”; magari qualcuno aveva qualche elemento di dubbio sul fatto che fosse veramente infernale, ma nessuno osava dubitare che fosse una macchina perfetta, cioè ordinata.

I tedeschi (non ritengo che siano solo i tedeschi ad aver fatto funzionare questo meccanismo: c'è una complicità molto più ampia) sono stati capaci. Tutto si può dire, ma non che non fossero capaci. Però tutte le testimonianze note (di Primo Levi, per esempio) e meno note ci aprono gli occhi, se li vogliamo aprire, sul fatto che le regole non erano funzionali. Per far funzionare quel tipo di macchina occorreva trasgredire; bisognava che tutti, singolarmente, in momenti diversi, mai collettivamente, fossero trasgressori, quindi punibili.

Questo si riproduce oggi: nessuno è veramente in regola da non poter essere preso in fallo per una qualsiasi trasgressione.

C'è un'analogia sorprendente: quello che sorprende è anche come la progressione dell'universo concentrazionario, come si è costruito, abbia permesso ai più di entrarci dentro senza rendersene conto.

È a posteriori che uno dice “Ghetto di Varsavia” e lo identifica con una grande tragedia. Chi ci è entrato, giorno dopo giorno, ha avuto un giro di vite al griono, e non ha percepito la tragedia immane che la fine di quell'esperienza ha mostrato a chi l'ha potuta vedere dopo.

C'è entrato e ha cominciato a pensare che doveva fare dei sacrifici in situazioni che non erano ottimali, ma che nonostante questo c'era un'autorità del Ghetto ed era ebraica, c'era una polizia del Ghetto ed era ebraica, c'erano dei negozi che funzionavano, c'era il contrabbando, che era un segno di libertà. C'era la possibilità di trasgredire organizzando delle serate di music-hall; c'erano le inaugurazioni di centri ricreativi, bagni solari sui tetti. C'era una società organizzata. Chi ci viveva dentro aveva l'impressione che non si fosse sempre in una situazione così drammatica come dal di fuori e dopo si è potuto affermare.

Questo rende molto perplessi sul “come siamo adesso”. Forse, un passo dopo l'altro, siamo entrati in una situazione che ha analogie più profonde, ancora più permeabili e permeate nel nostro modo di vivere tutti i giorni.


A. Canevaro, A. Chieregatti La relazione d’aiuto. L’incontro con l’altro nelle professioni educative, Il Mulino, Bologna, 1999, pag. 42-43