Sospesi su vuoti

Ci si alza al mattino alle sei, quando sulla strada i primi carretti diretti al mercato già si fanno sentire, prima del levarsi del canto mattutino del muezzin.

Doccia fredda perché il generatore a quest’ora è spento, una tazza di caffè, un po’ di tabacco, i 20 metri che separano la casa dall’ufficio, rigorosamente lo stesso compound, non sia mai che si esca per sbaglio in strada, e per le sette si è davanti ai monitor accesi, alla ricerca dell’ultima notizia della notte, sperando sia una buona ultima notizia.

Nemmeno 10 ore fa abbiamo chiuso l’ufficio, rientrati a casa per una cena senza fame, un paio di sigarette sotto la tettoia di paglia (attraverso la quale filtrano decisamente troppe stelle), il commento sarcastico sull’ultima autobomba che suona come un amaro tentativo di sfuggire al tempo e di spezzare quel ciclo continuo del pensiero che ci spinge a chiederci, a cercare di capire, a trovare frammenti per costruirci una risposta.

E invece eccoci ancora qui.

Scrivi perché vorresti poter condividere tutto ciò con qualcun altro, con qualcuno che possa ascoltarti e aiutarti a tirar fuori le cose, magari qualcuno che vedi ogni giorno, con cui ci lavori, spiegandogli perché oggi sei di così cattivo umore, perché ti va meno di scherzare, perché oggi lasci perdere così facilmente, perché oggi non ti importa più di tanto.

Poi però matura dentro il senso di colpa per il “lusso” occidentale del soffrire per pochi, e pensi che chi è uscito da vent’anni di guerra, forse, non saprebbe capire il tuo star male.

Il dolore non ha peso e non si bilancia, d’accordo, ma non ce la fai lo stesso.

Non si spiegherebbero il perché di tanta tristezza per delle persone che non hai mai conosciuto, che fino a tre giorni fa non sapevi nemmeno che esistessero e delle quali oggi continui a non sapere nulla.

Non saprebbero vedere il legame sottile, traslucido, che attraversa tagliando le relazioni umane e mette in contatto persone distanti, anonime, che nn si incontreranno mai, il patto silenzioso vi unisce: la possibilità dello scambio, lo stesso sguardo rivolto fuori, la stessa passione per l’essere umano.

E sei cosciente che non è la possibilità mancata del “poteva capitare a me” che ti impressiona tanto, ma il fatto stesso che loro, adesso, abbiano paura. Ah ecco. Allora è paura?

Direi che un pensiero costante che distrugge ogni tentativo di quotidianità, che annichila il sapore dei pasti e irrompe sempre più rumorosamente fra le parole della gente, che concede solo poche e stanchissime ore di sonno, che si attacca alla responsabilità delle piccole e delle grandi cose nutrendosi del tuo sforzo per distoglierne lo sguardo, direi che non si chiama paura, ha di sicuro un altro nome.

Ripensi a pochi mesi fa quando su una strada di montagna nn lontano cinque Medici Senza Frontiere sono stati assassinati per una banalità, dopo 20 anni di presenza nel paese, e non trovi giustificazione nel rapimento di chi stava da 10 anni in Iraq, sotto embargo, lavorando con la gente per imparare assieme a come fare senza nulla, e poi sotto le bombe, per testimoniare l’assurdità di quella guerra. Semplicemente nn lo accetti.

Così non riesci a preoccuparti della tensione che cresce con le bombe, i razzi e i morti sui bollettini giornalieri dell’agenzia locale per la sicurezza. Tanto sui media occidentali esce così poco che a casa non sanno praticamente nulla e in fondo, se non si preoccupano loro perché dovresti farlo tu.

Resta solo questo pensiero fisso. E ogni sforzo è dedicato a non lasciarsi cadere nel vuoto dell’immedesimazione, c’è un lavoro da fare e responsabilità che spingono giù dal letto -si voglia o no- ogni mattina.

Pensi che forse socializzare tutto questo potrebbe servire, ma è così difficile qui che ti si stringe il desiderio in gola.

Vorresti poter sentire una mano fra i capelli mentre cerchi di prendere sonno, vorresti un abbraccio, come uno di quelli che hai lasciato da poco, vorresti ti fosse restituito -per una volta- un ricordo ancora fresco.

Poi invece sei costretto a disfare ogni alternativa in sottili volute di fumo che non lasciano poi molto se non un po’ giallo fra le dita.

Bambini si accalcano fuori dai cortili per salutarti, mentre passando in macchina riesci a pensare solo a due cose: quanti chilometri devono fare per arrivare al prossimo pozzo (hai scelto bene? Sarà abbastanza vicino? si poteva fare meglio?), e come stanno.

Costruiamo pezzetti di ponti, sospesi su vuoti che non sappiamo immaginare.

Mik

Afghanistan


4 Risposte a “Sospesi su vuoti”

  1. Questo è il testo di un e-mail che mi ha spedito il mio amico Michele che in questo momento si trova in Afghanistan a costruire assieme alla gente del luogo pozzi d’acqua…

  2. se gli americani “sganciassero” acqua come fanno con bombe e proiettili non
    servirebbero altri pozzi….

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