Due giornate a Manzano: cronaca da un gruppo appartamento negli ultimi anni ’90

sedia.manzanoCompare qui di seguito un intervento – credo inedito visto che lo stesso autore non ne possiede copia – di Pino Roveredo che ringrazio per la concessione alla diffusione e per la disponibilità.
Ho ritrovato questo testo dimenticato tra i pacchi di moduli, plichi, fogli, diari nel gruppo appartamento di Manzano dove Pino passò nella primavera del 1998: la prima dopo la chiusura del manicomio udinese di Sant’Osvaldo.
Sono volati gli anni, passate le persone, cambiati i tempi.
Il triangolo della sedia – all’epoca ruggente locomotiva del ricco Nordest – attraversa da anni una crisi economica forse irreversibile. Simbolicamente la grande sedia costruita per celebrare la locale industria ora cade a pezzi.
Anche i servizi per la salute mentale sono cambiati. All’entusiasmo di fine anni ’90 – che nell’udinese ha significato l’uscita dall’istituzione totale – ora si è sostituita una psichiatria troppo spesso a porte girevoli, con notevoli contraddizioni e miserie e con una forte permanenza di elementi di chiusura.
Nei gruppi appartamento non ci sono quasi più bizzarri vecchietti dalla vita rubata tra le quattro mura di un manicomio, ma in maggior parte ci troviamo persone più o meno giovani e più o meno marginali socialmente. Probabilmente paiono meno rassicuranti: entrano ed escono dai vari servizi socio-sanitari e solo con enormi difficoltà, che come operatori vediamo/viviamo con loro ogni giorno, potranno sperare di trovare una reale emancipazione personale.
Anche noi operatori siamo invecchiati dentro l’istituzione (ché fuori oramai ci sono sempre meno possibilità anche per noi). Forse ci siamo appiattiti sul quotidiano, di certo ci sentiamo frustrati, ma siamo ancora (pressoché gli unici) con speranza accanto alle persone più fragili.
Spero a distanza di tanti anni Pino voglia ripassare a Manzano per vedere se riconosce cosa c’era e se nota ciò che è cambiato.
Ci conto.


DUE GIORNATE A MANZANOPino-Roveredo
Gruppo Appartamento di Manzano
di Pino ROVEREDO

Aprile ’98

Intervento per Iniziativa Comunitaria ADAPT “Nuove figure professionali nel campo dei servizi alla persona”.

L’appuntamento è per le tredici e trenta vicino alla ‘grande sedia di Manzano’. Devo andare a conoscere la realtà di un ‘Gruppo appartamento’ che ospita una dozzina di anziani, gente che fino a qualche tempo fa era ricoverata nell’ex manicomio di Sant’Osvaldo.

Alla partenza Eugenio che mi accompagna, mi aveva detto: “Non è lontano, in mezz’ora si arriva”. Sì, mezz’ora senza gli inconvenienti, perché una strada sbagliata due volte ha raddoppiato il tempo, così, si arriva con un’abbondante ora di ritardo. Ad aspettarci troviamo Deborah, che nonostante la cortesia di un sorriso, non riesce a nascondere l’impazienza verso chi non rispetta gli appuntamenti. Dopo una veloce presentazione con un reciproco: “Piacere”, si risale subito in macchina e si riparte. Non capisco la fretta.

Dopo essere entrati nella periferia del paese, svoltiamo una strada e ci infiliamo in un comprensorio di case; all’entrata un cartello avvisa che c’è la presenza di un Poliambulatorio, lo superiamo e ci fermiamo davanti a una fila di casette a schiera. Tutto intorno c’è un terreno incolto, solo qua e là qualche aiuola di sassi e fiori appena spuntati tenta di distinguersi nelle larghe macchie d’erba secca. Scendendo, immediatamente m colpisce un grande silenzio. Sì, d’accordo, quella non è un’ora di visite e visitatori, saranno tutti a pranzo, però, non si sente cantare un uccello, una macchina passare, qualcuno camminare… pare un deserto. Con l’opinione dell’estraneo, sospetto che quel gruppo di case e servizi sia stato messo lì appositamente per non essere visto da nessuno, quasi fosse una vergogna da sistemare dietro una visuale; ma ripeto che, è soltanto un’opinione.

Entriamo in una grande sala al pianoterra, e solo in quel momento comprendo finalmente la fretta di prima: il gruppo dei soci operatori, senza attendere il nostro ritardo, è impegnato nel turno di pareri e informazioni della riunione settimanale. Deborah chiama un minuto di sospensione, giusto il tempo di presentarmi e spiegare il motivo della mia venuta: assistere con gli occhi di un non addetto ai lavori, all’attività della comunità, per poi provare a raccontare su carta le sensazioni e le emozioni di quella cronaca inconsueta.

L’accoglienza è sbrigativa però cordiale: un saluto e il gruppo degli operatori, quasi tutti con un’età puntata sul ‘giovane’, allarga il circolo per infilare una sedia e farmi accomodare, poi, senza altri convenevoli ripartono con la discussione in corso. Dico la verità, mi sento imbarazzato come lo può essere uno sconosciuto tra sconosciuti, e anche se mi convinco che è un normale pegno che si paga in tutti gli esordi, sento addosso il timore dell’intruso. Fortuna che dura poco, il fastidio si dimentica di essere tale appena la mia curiosità riesce ad aggrapparsi all’argomento in discussione.

Stanno parlando di una certa Loredana, una ospite che si è sentita male qualche giorno fa ed ora è ricoverata al centro di rianimazione. Il fatto ha suscitato una grossa emozione, sia da parte degli ospiti che degli operatori. Teresa, la compagna di stanza, convinta di una ‘fine’ l’ha persino pregata in cielo. Maria invece, come chi ha perso qualcosa continua a chiedere di lei. Per gli operatori è stato diverso, loro, mobilitati da un’emergenza hanno chiamato immediatamente il medico di turno: il primo si è negato perché indaffarato con altri impegni, il secondo invece, dopo essersi informato sulla provenienza della chiamata, l’ha buttata sull’ironia: “Vi consiglio di mandarla a Lourdes”.

Ecco, improvvisamente l’imbarazzo di poco prima si sposta per fare spazio alla rabbia che entra e agita il pensiero :”No, l’ignoranza non ha domicilio e sta bene dappertutto, sia nella mia città che in questo piccolo paese, soprattutto l’ignoranza laureata, perché, più sono studiati e più sono feroci…”. In testa mi gira anche un confronto: se a chiamare fosse stato un ‘presidente’ qualsiasi o il ‘segretario’ di un ‘sottosegretario’, sono convinto che gli interpellati per la logica ruffiana di una scala gerarchica, sarebbero scattati sull’attenti. Invece, ha chiamato solo una struttura dell’igiene mentale, ma vuoi mettere….

Adesso Loredana, intubata come una misericordia, è ricoverata in un letto di ospedale, che può essere l’ospedale di Lourdes o di Manzano, non importa, perché quando uno è in coma non sta lì a distinguere e apprezzare. Intorno gli gira la preoccupazione dei ragazzi operatori e la disperazione del figlio. Per trent’anni madre e figlio si sono trattati a distanza: lui a girare in una vita di affidi, e lei a camminare sulle tragedie alcoliche fino al definitivo ricovero psichiatrico.

Ora, l’attenzione che si doveva a Loredana bisogna trasferirla e usarla al figlio, così, i ragazzi concordano i turni d’intervento.

La riunione continua, si volta pagina e si cambia umore. Dalla rabbia si prova a passare al sorriso, e precisamente un sorriso danzante, perché si deve discutere di Gino e della sua assoluta volontà di frequentare una scuola di ballo.
“Allora chi lo accompagna?.Gino
Dopo una breve esitazione prova ad offrirsi Maria Rosa, anche se con una premessa: “Per accompagnarlo nessun problema, però… se poi pretende anche di ballare con me; insomma, Gino è uno che muove le mani”.
“Bè, basta iscriverlo a uno di quei balli senza approccio”.
“Sì… a un corso di twist!”.
Si ride, poi qualcuno fa notare che, l’entrata di Gino nel corso danzante potrebbe procurare l’imbarazzo più o meno ironico degli altri partecipanti, perché, spesso, la gente ‘sana’ fa di queste cose.

Dall’ironia presunta si passa al ricordo di un’altra ironia che però, per una volta tanto, ha avuto la bontà di risparmiarsi. Succede quando si discute sul programma delle vacanze estive, allora Deborah ricorda che l’anno scorso a Rimini si era deciso di alloggiare con gli anziani della Comunità in una Pensione qualsiasi, con il rischio concreto di scontrasi poi con i soliti pregiudizi. E invece, è stata una scommessa vinta perché, nessuno si è girato, nessuno ha commentato e soprattutto, nessuno si è sentito disturbato. Anzi, qualcuno ha persino legato con la parola, altri addirittura si sono formati in coppia per sfidarsi al gioco delle carte. Certo, ha ragione Deborah, quella vacanza è sicuramente da ricordare come un fatto eccezionale. Così Rimini viene proposta anche per questa stagione, salvo complicazioni, perché tra Teresa, Maria, Gino e tra gli altri domiciliati c’è ancora una grande indecisione: chi vuole la montagna, chi vuole il mare, o chi non vuole assolutamente saperne di andare… Intanto si comincerà a preparare la lista, poi si vedrà.

Stiamo arrivando alla conclusione, ancora il tempo di assegnare gli incarichi e i turni della settimana e affrontare l’ultimo argomento all’ordine del giorno: la possibilità di acquistare un videoregistratore, perché, anche lì, il tempo passa che è una noia. Però, come ogni burocrazia che si rispetti, per quel apparecchio bisognerà riempire domande e domandine, sperando poi che il budget a disposizione sia così cortese di accontentare la richiesta. Mi viene da sorridere, pensando che oggi basta sollevare un telefono e rivolgersi a una promozione televisiva e ordinare un servizio di pentole, oppure raccogliere i buoni acquisto di dieci fustini di detersivo, che poi… i videoregistratori te li tirano dietro. Ma è un pensiero che tengo rigorosamente per me, perché, anche se l’ospite è sacro, non per questo ha il diritto alla stupidaggine.

Ormai gli operatori stanno raccogliendo carta e penna, sembra finita, dico: “sembra”, perché come in tutte le riunioni che si rispettino, c’è sempre la coda smemorata del “Ah! dimenticavo…”.
L’altro giorno una ospite, mi sembra Livia, con l’agitazione di una persecuzione se l’era presa con un’operatrice che stava compilando il suo verbale giornaliero. “Per caso stai scrivendo di me?”. Il racconto di quell’episodio rimanda una chiusura e apre la discussione di un dubbio. È giusto che un verbale venga trattato come il segreto professionale che informi solo la conoscenza degli addetti ai lavori? Continuando così a stimolare i sospetti di tutte le ‘Livia’ del caso? O piuttosto, saltando oltre i ruoli e usando la fiducia reciproca tra ‘aiuto’ e ‘aiutato’, sia meglio rendere visibile a qualsiasi richiesta la scrittura di una cronaca che li riguarda? Dopo un breve confronto, la maggioranza è propensa a scegliere la seconda ipotesi. Così, si decide che da domani il verbale non sarà più un segreto professionale ma un diario pubblico, e la curiosità potrà togliersi l’eventuale fastidio con l’invito alla lettura.
Dopo essersi accertati che nessuna altra coda smemorata deve agganciarsi a una motivo da ricordare, ci si saluta e si chiude: Alla prossima….

Uscendo dalla sala mi incrocio con una ospite, anzi, a onor del vero si mette davanti a sbarrarmi la strada. È una donna con una taglia forte che con un’espressione severa prima mi osserva attentamente e poi, puntandomi un dito contro mi dice: “Per caso, lei è un direttore?”.
Ma figuriamoci, proprio io che detesto qualsiasi libidine da comando, essere scambiato addirittura per un direttore. Per amore di una verità mi affretto subito a deludere l’impressione e mi presento: “Sono Pino, operaio per dovere e scrittore per piacere”. La signora mi fissa ancora un po’, poi, decide di sostituire la diffidenza con un meraviglioso sorriso a tre denti, allungandomi anche al mano del ‘benvenuto’. “Ciao, io sono Gabriella”.

Stabilite le posizioni, come due conoscenti che si incontrano per strada ci fermiamo a dialogare.
“Allora, ti piace questo posto?”Gabry
“Sì sì, sicuramente è meglio di Sant’Osvaldo… però, è che io non sto bene, non sto per niente bene…”
“E cos’è che hai?”
“Mi fa tanto male la pancia, ma un male che non ti dico…”
Gabriella mi racconta che ieri mattina è stata all’ospedale e gli hanno fatto tutti gli esami, soprattutto quello del tubo infilato in bocca e spinto giù per curiosare dentro lo stomaco.
“Vuoi dire la gastroscopia”
“Sì sì, quella roba là…”.
Per spirito di consolazione gli spiego che con quella ‘roba là’ solitamente trovano un rimedio al dolore, ma lei continua a dondolare la testa come chi non si lascia assolutamente convincere. “Sarà, ma io sto ancora male, tanto male…”.
È tardi devo andare, così ci salutiamo, e lo facciamo proprio come due conoscenti di lunga data, con tanto di bacio e abbraccio.
“Sono contenta che non sei direttore. Ciao Pino…”
“Sono contento anch’io. Ciao Gabriella”.

Risalgo in macchina e il rumore del motore che si accende riesce a togliermi la sensazione di ‘deserto’. Guardo fuori dal finestrino, niente, anche a pagare non c’è un uccello che vola e un’anima santa che passeggi, niente… solo il sorriso a tre denti di Gabriella che mi saluta con la mano.
Alla prossima…


La Prossima

Questa volta a Manzano vado con Deborah, così non c’è il rischio di ritardare con nessuno. Aveva ragione Eugenio, se non si sbaglia strada in mezz’ora si arriva.
Nel tragitto veloce ho appreso che quattro giorni fa Loredana è morta in Rianimazione. Niente, Lourdes non ha fatto il miracolo.
Ora, anche se Loredana non l’avevo mai incontrata, ma solo conosciuta dentro la rabbia di un ascolto, ho sentito dentro lo stomaco l’indignazione dolorosa per una scomparsa. Sì, lo so, è un esternazione inutile, e se ci fosse stato lì il medico spiritoso mi avrebbe detto: “Ma lascia stare, i matti non si piangono, come non si piangono le baldracche e i disgraziati. Soltanto le grandi persone meritano il lusso del dispiacere. Loredana? Era solo una che viveva senza accorgersi di vivere. Ma vuoi mettere…”.
Deborah mi ha detto anche dei ragazzi operatori, che sensibili come un’inesperienza, per quella perdita hanno toccato l’angoscia. Allora, vuol dire che Loredana, almeno per quei giovani, non è stata una disgraziata qualunque. Lei ha avuto tutto l’onore disperato che si dedica agli affetti. Speriamo solo che quei cari operatori non si abituino mai al loro lavoro: non vorrei incontrarli fra qualche anno e scoprirli insensibili e feroci come… un’ignoranza laureata.

Passiamo radenti al monumento della ‘grande sedia’ e dopo due tre curve ci infiliamo nel comprensorio del ‘gruppo appartamento’. Sono le nove del mattino e, a differenza dell’altra volta, il cartello che avvisa la presenza di un ‘Poliambulatorio’ ha un senso. Oggi almeno c’è qualcuno che va e viene: esami del sangue, cardiogrammi, visite specialistiche… Chissà, probabilmente sarà la preoccupazione per uno stato di salute, sta di fatto che è tutto un passaggio di gente imbronciata. D’istinto mi passa per la mente la figura di Gabriella, il suo mal di pancia e la sua allegria a tre denti, e mi convinco che in certi ‘sottoscala’ dove noi non guardiamo mai, ci sono poi le scuole migliori.

Nella grande sala dove si era svolta la riunione, incontro Paolo che è il coordinatore dei giovani operatori. È impegnato con la contabilità, e più precisamente con una cassetta metallica piena di buste plastificate dove dentro viene conservato il denaro degli ospiti. A quell’ora c’è il disbrigo della spesa: i gruppi appartamento che conta ognuno tre persone, decide autonomamente sul fabbisogno alimentare, poi a turno va a provvedere all’acquisto. Certo, come in tutte le migliori famiglie esiste il contrasto, c’è ad esempio chi vuole la cotoletta di maiale e chi la carne in gelatina, allora si risolve tutto con il compromesso: ‘primo’ in comune e ‘secondi’ separati.RobertoIn fila per il prelievo ci sono Argia e Aldo. Argia è una che non sta mai ferma, sembra colpita da una scossa elettrica continua. Batte i piedi nervosamente, si agita, sbuffa… “Non posso perdere tutta la mattina, muoviti che è tardi!”. Dietro, in contrapposizione al carattere scosso, c’è la calma incredibile di Aldo. Lui ha il passo calmo che striscia, ritira il denaro lentamente e ringrazia sottovoce.

I due, con Francesca che li accompagna, si avviano verso la macchina. “Pino, noi andiamo al supermercato, vieni anche tu?” – “Volentieri”. Dietro il mio compiacimento si aggiunge subito il lamento di Argia: “Sì, ma basta che ti sbrighi però…”.
Come mettiamo piede in negozio, Argia afferra un carrello e parte a razzo verso gli acquisti. Riesco a seguirla con lo sguardo fino al reparto ‘verdura’, poi svolta e non la vedo più. Aldo invece, sempre con la santa calma, sceglie piselli in scatola, ordina la mortadella migliore e va a cercarsi la birra analcolica. E dire che solo qualche mese fa, aveva il terrore di entrare in qualsiasi locale, maneggiare il denaro, incrociare la gente… Oggi invece come se avesse dimenticato la paura, sempre con il suo passo a ‘striscio’, va un po’ dove gli pare.
Francesca mi dice che il supermercato è ormai una conquista, perché la gente non dedica più la sua curiosità ai ‘matti’ di Manzano, me lo dimostra anche Argia che in attesa alle casse, saluta il panettiere, discute con una commessa e dedica il ‘buongiorno’ a tutti i passaggi che incrocia. Qui, anche se non volano uccelli, mi accorgo che la gente vive e sorride, tanto che la sensazione di ‘deserto’ è come se fosse stata bloccata all’ingresso.

Tornati in sede, mentre sto fuori a fumare una sigaretta, sento da dietro le spalle un: “Hai fuoco?”. È una donna di mezza età, con una sigaretta in bocca Liviae una borsetta in mano. Dopo averle accontentato la voglia di fumo, si accomoda su una sedia e si mette a fissarmi per qualche secondo; finito il controllo mi fa: “Chi sei?” – “Sono Pino e tu?” – “Livia…”. Quindi, come la cosa più naturale del mondo cominciamo a dialogare. Lei mi dice di un fastidio agli occhi per via del rimmel, e io gli racconto qualcosa di Trieste. Poi, per una curiosità che dovrà scriversi, le chiedo com’è la gente del posto. Lei subito si fa seria e mi risponde: “La gente qui…” – e indicandomi con il dito le grandi vetrate del Poliambulatorio continua – “… è maledettamente curiosa. La vedi lì ogni mattina appiccicata alle lastre, neanche fossimo chissà che importanti… Ma che cazzo vogliono…”

Mi trovo improvvisamente in difficoltà, imbarazzato proprio come se Livia mi costringesse la figura contro le lastre incriminate mentre mi rimprovera una curiosità. Fortuna che dura poco, perché è lei stessa che si affretta a togliermi dall’impiccio. “Ma no, non ce l’ho con te, tu si vede che non sei come loro. Io i cattivi li riconosco con l’odore…”. E allora comincia a raccontarmi delle persone cattive del Sant’Osvaldo, dove lei è stata internata per dodici anni. Dodici anni di manicomio che oggi gli fruttano una pensione, perché lei lì doveva anche lavorare. Sveglia alle sei per andare a grattare i pavimenti, finiti quelli, di corsa in cucina a lustrare pignatte e cucinare, quando si terminava, nuovamente di corsa a frequentare quel cazzo di Corso di Ricamo e Cucito.

Livia nella foga ha bruciato la sigaretta, con il mozzicone si accende subito un’altra e continua a raccontare. “Senti a me Pino, il mondo non è altro che un grande manicomio, poi, c’è chi vive bene e chi vive male, male come me… Ma dimmi tu, si può essere ricoverati a ventiotto anni e perdere la gioventù e tutti i divertimenti che ti aspettano? Se facessero così con tutti, addio prodotti…”.

Sì, addio prodotti. Livia ha ancora qualche affetto che gira nel mondo e tra questi anche un fratello. Un fratello che si è ricordato di lei e l’ha invitata a casa; pareva tutto bello, pareva…. Se non fosse stato per una cognata gelosa che si era frapposta tra gli affetti impedendo qualsiasi contatto: niente baci, abbracci o carezze, persino il divieto di parola da quando gli chiude il telefono sulle chiamate. Ma chi l’ha detto che gli ammalati, sono solo quelli marchiati dai certificati?

A interrompere il rammarico, interviene Paolo e la sua intuizione cortese di volermi presentare. “Ma lascia stare che abbiamo già fatto tutto da soli. Tu piuttosto, lo sai che ho una compagna all’ospedale e un’altra ammalata a letto, mi dici ora chi mi aiuta a lavare i piatti e a fare il pranzo?… Perché se non lo sai, io sono stancaaa…”.
Paolo mette su uno sguardo pensieroso come a cercare una soluzione… Sì, ma perché guarda me? E perché io alzo il braccio come un volontario involontario? Mah! Ormai è fatta, Paolo ha approvato e Livia mi ha invitato a pranzo, intesi che devo cucinare io.

Oggi deve essere un giorno più agitato degl’altri, me lo confermano anche gli operatori. C’è Gino, quello della voglia ballerina, che sta urlando dal primo appartamento. Sembra che sia per una questione di orari e gelosie: Paolo doveva andare a prenderlo alle otto per fare la spesa, invece è venuta Francesca per prendere Aldo, così, lui che non vuole Francesca e sta aspettando ancora Paolo, adesso grida la protesta per il ritardo… almeno, io ho capito così. Per calmarlo chiamano Maria Rosa, la più idonea al caso, perché più degl’altri è riuscita a costruire con Gino un rapporto confidenziale.
Ma l’agitazione non è per quelle urla, quanto, per le tre nuove ospiti che devono arrivare e che andranno ad occupare l’ultimo appartamento della schiera. Anche Teresa, l’ospite più anziana, è in trepidazione per quell’arrivo. “Sono arrivate? E quando arrivano? Non vengono più?”.

Teresa è la più dolce di tutti. Lei passeggia in continuazione e quando i ragazzi la incrociano, la stringono e la baciano, un bacio che ho avuto l’onore di ricevere anch’io quando ci siamo presentati. Paolo mi racconta che quando l’hanno portata a Manzano era triste come la peggiore delle depressioni. Per lungo tempo non ha parlato e ha schivato qualsiasi approccio, poi, con l’insistenza gentile degli operatori, lei si è sciolta fino a rivoltarsi l’umore. Ora ride sempre e saluta tutti. A guardarla, mi vengono in mente quelle vecchiette che vengono disegnate nei cartoni animati per interpretare le nonne buone. Teresa è una piccola donna, e cammina sempre con la schiena piegata come se dovesse sopportare tutto il peso della sua storia ammalata; ha le mani fisse nelle tasche di un grembiule a fiori, e gira sempre con un’eterna sigaretta in bocca. Ma qui, nei larghi intervalli della noia, sono in parecchi ad avere la sigaretta infilata in bocca, che poi bruciano con la fretta delle fumate ansiose, come se ogni volta fosse l’ultima…

Ecco, finalmente l’agitazione della mattina ha un senso: accompagnate da due assistenti sociali sono arrivate le tre nuove ospiti. Appena mettono piede giù dal furgone si guardano in giro smarrite, poi osservano la loro nuova abitazione senza probabilmente sapere dove sono. I ragazzi intanto scaricano i bagagli: due cappotti, una decina di vestiti appesi e qualche scatola, dentro, ci sono i ricordi di tutta una vita. Ora sicuramente dovranno percorrere il tragitto degli altri: il terrore di Aldo e la tristezza di Teresa, ma forse col tempo passerà, sì, con l’affetto dei ragazzi, passerà…

È arrivata l’ora di pranzo e come promesso vado nell’appartamento di Livia. Lei è già impegnata con l’acqua, detersivo e spolverate di cenere che scendono dalla sigaretta infilata in bocca, nella pulizia dei piatti. Come menù abbiamo deciso di arrangiarci con quello che c’è in casa: una minestrina in busta e una frittata. Mentre mi accingo a mettere una pentola di acqua sul fuoco, sento girare l’insistenza di un lamento. “Ma chi è”.
“È l’ammalata di sopra. Io non ho tempo, vai a vedere tu cosa vuole”.
Salendo al piano di sopra, l’indicazione di un: “Sto male, sto male…” mi entra nell’ascolto come una conoscenza. Ma certo è il lamento di Gabriella che nel semibuio della camera non mi riconosce subito.
“Ciao, sono Pino, quello che non fa il direttore”.
“Oh Caro, sei venuto a trovarmi…”.
Come due vecchi conoscenti ci abbracciamo e ci baciamo. No, nel mondo dei ‘finti’, slanci così non succedono. Per assurdo, l’alienazione sbarra la strada a tutte le ipocrisie e a tutti i sciocchi riguardi, conservandosi dentro la purezza istintiva di un sentimento. Con loro, l’abbraccio è un abbraccio, il bacio è un bacio, e niente altro perché lì l’affetto non si esibisce mai con l’azione strisciante di un tornaconto, la differenza del nostro vivere intelligente, nessuno sa cos’è un ruffiano…

La minestra è venuta come è venuta: la pastina è dura e manca anche il sale. La frittata invece, anche senza l’acrobazia del salto è venuta dura e compatta, riguardo al gusto, basta accontentarsi.
Gabriella ha già consumato e con il piacere di un alimento caldo è tornata a letto.
Mentre Livia, con la testa piegata e la bocca a tre centimetri dal piatto, con cucchiaiate veloci accompagna mezza minestra dentro e mezza fuori.
“Piano, piano, che così ti fai male…”.
Macché, troppo tardi, un sorso più violento degli altri sollecita lo scoppio e… un’esplosione di pastina e minestra si sparge nell’aria.
“Che stupida che sono, quando il sacco è pieno è inutile metterci dentro altra roba perché dopo scoppia…”.
E ha ragione, , perché l’esplosione di Livia me la trovo un po’ dappertutto, nel piatto, sulla giacca, persino qualche pezzo di pastina sul collo. Lei ride, rido anch’io, poi, visto che il sacco si è svuotato e io ho perso l’appetito, Livia unisce le porte e riattacca con la frenesia del cucchiaio.
Il pranzo bene o male è terminato. Ho messo su la macchinetta del caffè e mentre aspettiamo, Livia si è addormentata sul divano, ma non sono solo perché sono venuti a trovarmi i ragazzi: giovani operatori.
Prima sono arrivate Francesca e Veronica che cercavano una teglia perché dovevano fare una torta, una torta con ingredienti minimi e senza pretese, eppure preziosa, perché dovrà festeggiare il compleanno di Maria. Ho scritto preziosa perché, anche quando sono venuti Katja e Alessandro hanno manifestato la stessa apprensione per la buona riuscita della festa, quasi fosse il compleanno di uno di loro.
Quei giovani entusiasmi sanno darmi un sollievo incredibile, e senza nessuna voglia di esagerare, mi fanno riflettere che il mondo è meno cattivo ed egoista di quello che spesso si pensa, se è vero che ci sono persone che non usano la professione solamente per lo stipendio. Mettiamo ad esempio Veronica: oggi è il suo giorno di riposo, eppure ha preso la macchina ed è venuta qui a preparare la torta, quando me lo racconta io rimango meravigliato, lei invece, si meraviglia della mia meraviglia. La sensibilità che quei giovani usano dentro il loro lavoro, sicuramente richiede lo sforzo di una fatica doppia, me ne accorgo quando parlano dell’addio di Loredana, una partenza che non trattano con la fatalità di una malattia o di una vecchiaia, ma bensì, con le parole scosse di un dispiacere per la perdita. Se in questo momento dessi ascolto al mio istinto, correrei a cercare quel medico che prescrive pellegrinaggi cristiani e lo porterei qui, obbligandolo ad ascoltare una lezione che non ha mai imparato. Ma è un istinto che passa, tanto, non sarà certo la rabbia di un minuto a smontare un’arroganza lunga una vita…

A proposito di rabbia, Veronica e i suoi amici mi ribadiscono il fastidio già raccontatomi da Livia, quello che ogni mattina appiccica la sua curiosità sana contro le lastre del Poliambulatorio, poi, aggiungono anche certi commenti della gente quando indicano gli appartamenti a schiera: “Ecco dove vanno a finire i nostri soldi…”. Mentre parlano, come una coincidenza rivedo la gioia di Deborah quando ci raccontava la cronaca di una vacanza estiva: ma è possibile che la Pensione di Rimini dev’essere un episodio incredibile?Gino-GabryLa torta ricoperta di scaglie di cioccolato e un mazzetto di candeline quante sessantaquattro anni di età, apre il corteo che si dirige verso la scala, dietro una brocca di tè alla pesca, bicchieri e un meraviglioso cesto di fiori gialli.

Ad attenderci ci sono quasi tutti: Aldo che con passetti striscia verso la sedia. Teresa che fuma, Gino incazzato come la mattina, Livia mezza addormentata e Argia che stiva tovaglioli di carta e stimola: “Andiamo, andiamo…”. Le tre nuove ospiti invece non sono venute, probabilmente sono ancora stanche del viaggio, un viaggio sicuramente breve, ma pur sempre faticoso per gente che ha vissuto nelle dimore stabili.

Chi non vuole partecipare alla festa è proprio la festeggiata, che se ne sta sul divano ad angolo rifiutando inviti e auguri. Che cosa sono i compleanni per questa gente, se non degli anniversari buoni per ricordare la stessa storia. E chissà che storia: auguri di violente infermiere, buon compleanno in camicia di forza, festa dentro un elettrochoc che fa cascare i denti. No, forse Maria non vuole festeggiare niente perché niente merita tanto onore, o forse… perché il suo primo compleanno deve ancora arrivare…

Ad ogni modo, visto che la festa è stata preparata, ora la si deve consumare. Così noi partecipanti ci mettiamo in circolo e alla conta del ‘Tre’, soffiamo sui sessantaquattro anni accesi da festeggiare. Poi, con un coro stonato intoniamo la consuetudine del : “Tanti auguri a te, tanti auguri…”. Se è vero che gli anziani tornano bambini, allora questo è un coro di bambini gioiosi, lo si può notare dagl’occhi umidi degli ospiti e dalle loro mani che battono accompagnando la canzone. Anche Maria, volente o nolente, una piccola lacrima la tira fuori. E allora non è stata una festa inutile: “Auguri Maria, e che questo sia solo il primo di tanti altri compleanni sereni”.

Le fette di dolce sono state divorate e il tè lo ha aiutato a scendere nello stomaco, ora le sigarette accese dimostrano tutta la soddisfazione. Argia ci sta raccontando di quando giovane lavorava in una pasticceria: “Maledetti, con una bicicletta di ferro mi mandavano a consegnare montagne di torte. Sì, ma mi facevano andare per la ‘statale’ dove c’erano camion giganti e auto a cento all’ora che se ne fregavano del mio equilibrio e mi spostavano di qua e di là. Sì, però, mai una torta rovinata. Argia ride, io penso invece che è la solita storia di sfruttati e sfruttatori. Chissà un bel giorno saranno arrivati i motorini e lei, con la precarietà delle consegne, l’avranno spedita a casa.
D’improvviso si apre la porta e come una furia entra Gabriella.
“E la mia torta?”
“Ma stai male?”
“Sì, ma forse che mangiando mi passa!”.
Ha ragione lei, perché divora la sua fetta con l’appetito di una buona salute, non risparmiando neanche le briciole che si perdono sul tavolo. Poi, finito il tè, di scatto chiede ad Alessandro: “Ha già chiamato?”.
“Sì, un’ora fa, ma ha detto che richiama”
“E quando?”
“Credo a momenti…”.

I momenti durano una ventina di secondi, poi suono il telefono e Gabriella salta per aria. Allora corre e si butta sul divano, solleva la cornetta e dopo un secondo si scioglie in un sorriso. “Ciao Paolino mio, ciao… Sì sto meglio… Ma no, non preoccuparti lo sai che ti voglio bene, ma tanto tanto bene…”.
Sempre per la curiosità di una penna, mi informo chi è, mi dicono che Gabriella sta parlando con il suo ‘moroso’ che abita in un paese qui vicino. Mentre la guardo, mi accorgo che ha gli stessi occhi lucidi di quando l’ho abbracciata, l’identico sguardo gioioso di Teresa quando viene baciata dai ragazzi, l’emozione fotografata della lacrima di Maria. No, a quelle persone nessuno è riuscito a spiegare cos’è un sentimento, quello che esternano è un istinto naturale che non ha subito contaminazioni, proprio come la grande libertà dei bambini, prima di essere obbligati alle ottuse regole dei ‘grandi’.

Dopo una decina di minuti piena di baci, parole e risate fidanzate, Gabriella chiama Alessandro perché il ‘moroso’ vuole comunicare urgentemente con lui.
“Sì, dimmi Paolino… Giovedì? Fammi pensare, ma sì certo, ho giorno di riposo. Sta tranquillo, prendo la macchina e porto Gabriella su da te”.
In un ospedale, in una ‘casa di riposo’, in un collegio di bambini: le farebbero queste cose? È l’ultimo brivido che provo, perché è arrivata Deborah per riaccompagnarmi a Trieste.

Saluto tutti quanti, anche se Livia vorrebbe trattenermi per aiutarla a fare la cena.
“Non posso fare tutto io, sono stancaaa…”. Abbraccio Teresa e bacio Gabriella, Argia no, lei chissà in che furia starà girando. Auguro un ‘In bocca al lupo’ ai ragazzi, vorrei anche ringraziarli per il meraviglioso lavoro che stanno facendo, ma sono già entrato nel mondo dei ‘finti’ dove queste esternazioni sono talmente sciocche che non si usano.
Andando, ho l’impressione di allontanarmi da un deserto ed entrare in un paese qualsiasi, o chissà, forse sto lasciando una piccolissima città senza nome e sto entrando in un deserto di gente che vive senza vivere.
Stiamo superando la ‘sedia di Manzano’, ci sono macchine che corrono, uccelli che volano gente che va: eppure sento una solitudine addosso…

Trieste, 7 aprile 1998

Pino ROVEREDO


Con alcune immagini tratte da Storie apparentemente piccole, “Sconfinamenti” n. 6, dicembre 2004.