La pecora nera – Il film che ricostruisce la storia di un uomo rinchiuso per 42 anni

Ascanio Celestini al manicomio:
per raccontare la follia di tutti

«E ancora oggi si fa abuso di elettroshock e psicofarmaci»

La pecora nera – Il film che ricostruisce la storia di un uomo rinchiuso per 42 anni

Ascanio Celestini al manicomio:
per raccontare la follia di tutti

«E ancora oggi si fa abuso di elettroshock e psicofarmaci»

ROMA — Sul set de La pecora nera, nell’ex manicomio di Santa Maria della Pietà, Ascanio Celestini appare con la sua barbetta caprina e gli occhi vispi e mobili. Ascanio e le sue storie raccolte sul campo che nascono dal passaparola di operai, contadini, precari di tutto il mondo. O matti. Qui racconta la storia di Alberto Paolini che è stato rinchiuso per 42 anni, fino al 1992, nel manicomio romano che oggi, tra gente che fa jogging, anziani sulle panchine e bambini in carrozzina, si offre con mitezza ospitando Asl e Museo della mente.

Ascanio Celestini (in nero) sul set (Ansa)
Ascanio Celestini (in nero) sul set (Ansa)

Un film immaginifico, evocativo sui manicomi che non esistono più ma il disagio mentale esiste eccome, tanto che le riprese (Rai Cinema, Madeleine e Bim sperano di portarlo alla Mostra di Venezia) coincidono con il Festival del cinema patologico di Dario D’Ambrosi. Il vero Paolini ha una piccola parte, mentre la sua vita è sdoppiata in un ex infermiere e un paziente, dove un personaggio è la proiezione dell’altro e i volti son quelli di Celestini e di Giorgio Tirabassi. E poi Maya Sansa, la donna di cui Ascanio è innamorato. «Fino all’ultimo — dice l’attore e regista — non capiamo se le cose accadano al paziente o all’infermiere». È la storia vista dal basso, periferie di piccola gente di un paese senza memoria: «In fondo nel film racconto un disagio che abbiamo tutti, piccoli segnali che si possono manifestare in tanti modi come accade a chi sta male sotto le gallerie o a chi soffre di essere diventato calvo». L’affabulatore della borgata romana, fra Petrolini, Dario Fo, Marco Paolini o il primo Benigni, stavolta non si limita a raccogliere la folla dall’ombra e dargli corpo nella narrazione solitaria ma si mette anche lui dentro la storia che, dal 1975, percorre 30 anni. Nasce da uno spettacolo teatrale di Ascanio poi diventato libro, frutto di quattro anni di ricerca, 150 interviste a ex infermieri di ospedali psichiatrici e centri di igiene mentale.

Ha il passo del romanzo popolare che cavalca un’epica leggera, tra realismo e fantasia. Lui che costruisce con le parole qui le ha asciugate: «Ma anche sulla scena uso tante parole seguendo delle immagini, la parola diventa uno strumento. Qui mi interessa che lo spettatore produca lui delle immagini». Come trasferire un monologo teatrale in un film? «È un lavoro divertente di smontaggio e creazione di nuovi intrecci con gli stessi elementi». Ha visto Si può fare con Claudio Bisio? «Quel film racconta la fine di un manicomio, io racconto il manicomio che c’è ancora come pensiero e ideologia psichiatrica. L’elettroshock esiste ancora, gli psicofarmaci si usano più oggi che al tempo della 180. Basaglia parlava del manicomio per parlare di un istituto e di un meccanismo repressivo che si ritrova pari pari al carcere o alle scuole elementari, dove si fa la lista di buoni e cattivi, dove il maestro ha il registro dalla parte del manico e il primo insegnamento è che c’è un’autorità da rispettare, tanto che esiste il voto in condotta». E Alberto Paolini era la pecora nera. «Invece Basaglia introdusse il concetto rivoluzionario che metteva in discussione il principio di autorità». Qualcuno volò sul nido del cucùlo? «Mi piace il finale, l’indiano che dopo aver sfasciato tutto esce dal manicomio corricchiando su una musica leggera leggera. Ho pensato a un ex paziente che parla di elettroshock, non c’è sangue, è una cosa che accade normale. Ecco il mio film dice quanto è banalmente normale il manicomio».

Valerio Cappelli
08 aprile 2010
Corsera