Mauthausen

In questo Lager, non dei peggiori, sono morte più di centodiecimila persone. L’immagine più terribile, forse più ancora della camera a gas, è la grande piazza in cui i prigionieri venivano raccolti e inquadrati per l’appello. La piazza è vuota, assolata e afosa. Niente più di questo vuoto rende l’irrappresentabilità di ciò che si è svolto fra queste pietre. Come il volto della divinità per le religioni che vietano di disegnarne l’immagine, lo sterminio e l’abiezione assoluta non mi lasciano ritrarre, non si prestano all’arte e alla fantasia, a differenza delle belle forme degli dèi greci. La letteratura e la poesia non sono mai riuscite a rappresentare adeguatamente quest’orrore; anche le pagine più alte sbiadiscono dinanzi al nudo documento di questa realtà, che sovrasta ogni immaginazione. Nessuno scrittore, neanche grandissimo, può gareggiare a tavolino con la testimonianza, con la trascrizione fedele e materiale dei fatti accaduti fra le baracche e le camere a gas. Soltanto chi è stato a Mauthausen o ad Auschwitz può cercare di dire quell’orrore radicale; Thomas Mann o Brecht sono grandi scrittori, ma se avessero cercato di inventare una storia di Auschwitz le loro pagine sarebbero state edificante letteratura d’appendice rispetto a Se questo è un uomo.
Forse le testimonianze più adeguate a quella realtà non le hanno scritte neppure le vittime, bensì i carnefici, Eichmann o Rudolf Höss, il comandante di Auschwitz, — probabilmente perché, per dire cos’era veramente quell’inferno, lo si può soltanto citare alla lettera, senza commenti e senza umanità. Un uomo che lo racconti con ira o con pietà lo abbellisce senza volerlo, trasmette alla pagina una carica spirituale che attenua, nel lettore, lo shock di quella mostruosità. Forse per questo è quasi imbarazzante incontrare per caso, a un inoffensivo e amabile pranzo, un sopravvissuto dei Lager, scoprire sul braccio del nostro gentile o antipatico vicino di tavola il numero di matricola del campo; c’è sempre un divario paralizzante fra la sua inimmaginabile esperienza e l’insufficienza dei gesti o delle parole con le quali egli vi accenna, facendola apparire quasi una routine.
Il più grande libro sui Lager lo ha scritto, nelle settimane fra la condanna a morte e l’impiccagione, Rudolf Höss. La sua autobiografia, Comandante ad Auschwitz, è il racconto oggettivo, imparziale e fedele di atrocità che sconvolgono ogni metro umano, rendendo intollerabili la vita e la realtà, e che dovrebbero sconvolgere e quindi impedire anche la loro rappresentazione, la stessa possibilità di raccontarle. Nella pagina di Höss lo sterminio sembra narrato dal Dio di Spinoza, dalla natura indifferente al dolore, alla tragedia e all’infamia; la penna registra imperturbabile ciò che accade, l’ignominia e la viltà, gli episodi di bassezza e d’eroismo fra le vittime, le dimensioni immani del massacro, la grottesca solidarietà automatica che si crea per un attimo, sotto le bombe, fra carnefici e perseguitati.
Höss non è il solito burocrate, pronto a seconda degli ordini a salvare o ad assassinare con eguale efficienza; non è un torturatore come Mengele, non è neppure Eichmann, che racconta e rielabora la propria vicenda perché interrogato dagli israeliani, tentando di non pagare il fio dei suoi delitti.
Höss scrive dopo la condanna a morte, senza che nessuno glielo chieda; la molla che lo spinge a scrivere è oscura, non si lascia spiegare dal desiderio di nobilitare la propria figura, perché l’autoritratto che ne risulta è certo quello di un criminale e il libro sembra obbedire a un’imperiosa esigenza di verità, a un bisogno di ribadire la propria vita, dopo averla vissuta, di protocollarla con precisione, di passarla impersonalmente agli atti. Per questo il libro è un monumento, la registrazione della barbarie, preziosa contro i reiterati e abietti tentativi di negarla o almeno di smussarla, sfumarla. Il comandante di Auschwitz, assassino di centinaia e centinaia di migliaia di innocenti, non è più abnorme del professore Faurisson, che ha negato la realtà di Auschwitz.
Scendo la Scala della Morte, che conduceva alla cava di pietra di Mauthausen. Su questi 186 alti gradini gli schiavi portavano macigni, cadevano per la fatica o perché le SS li facevano inciampare e rotolare sotto i sassi, venivano abbattuti a bastonate o a fucilate. I gradini sono blocchi ineguali e impervi, il sole scotta; il massacro è ancora vicino, vengono in mente divinità arcaiche avide di sacrifici umani, le piramidi di Teotihuacán e idoli aztechi, anche se dèi più moderni e civili non hanno impedito ai torturatori di torturare. Il libro di Höss è terribile — terribilmente istruttivo — perché la sua epica concatenazione di fatti mostra come nella meccanica ruota delle cose si possa giungere, un passo dopo l’altro, a diventare non solo vigili urbani o cuochi dell’esercito del Terzo Reich, comparse dell’orrore, ma anche primattori e registi dello sterminio, comandanti ad Auschwitz.
Gli scalini sono alti, sono stanco e sudato. Adorno ha detto che dopo i campi di sterminio è impossibile scrivere poesia.
Quella sentenza è falsa — e infatti è stata smentita dalla poesia, per esempio da Saba, che sapeva cosa significasse scrivere «dopo Maidanek», altro terribile Lager, ma che ha scritto «dopo Maidanek»; è falsa anche perché non c’è stato soltanto il nazionalsocialismo, e pure dopo i Conquistadores, la tratta dei negri, i gulag o Hiroshima la rima fiore-amore era — è — altrettanto problematica.
La sentenza è tuttavia paradossalmente vera, perché il Lager è un esempio estremo di annullamento dell’individuo — di quell’individualità senza la quale non c’è poesia. Su questa scala di Mauthausen si sente, fisicamente, la superfluità dell’individuo, il suo annichilimento, la sua sparizione; come se egli fosse un dinosauro o un okapi, un animale estinto o in via di estinzione.
Non solo la svastica, ma la storia universale, i processi generali cospirano a questo esautoramento. Il protocollo dell’interroga- torio di Eichmann è un documento estremo di una parcellizzazione dell’esistenza, della persona e del suo agire, che abolisce responsabilità e creatività. Eichmann non uccide, provvede al convoglio e al trasporto di coloro che devono essere uccisi; la responsabilità sembra non coinvolgere nessuno — perché ognuno, anche ad altissimo grado, è solo anello di una catena di trasmissione di ordini — o tutti, ad esempio pure le organizzazioni ebraiche, che i nazisti costringono a collaborare e a scegliere gli ebrei da deportare. Su questi scalini, il singolo si sente uno dei grandi numeri macinati dallo Spirito del Mondo che evidentemente da segni di squilibrio mentale, uno di quei numeri di matricola che l’ufficio competente del Lager incideva sul braccio dei detenuti.
Ma su questi gradini l’individuo ha saputo anche rendersi unico e incancellabile, più grande di Ettore sotto le mura di Troia. Quella giovane donna che, sulla soglia della camera a gas di Auschwitz, si volta verso Höss, e gli dice, sprezzante — com’egli racconta — che non ha voluto farsi selezionare, come avrebbe potuto, per seguire i bambini che le erano affidati, e poi entra sicura con loro nella morte, è la prova dell’incredibile resistenza che l’individuo può opporre a ciò che minaccia di annientare la sua dignità, il suo significato. Nei vari Lager e anche su questa scala di Mauthausen sono avvenute tante di queste gesta, di queste Termopili che fermano la marea dell’abiezione.
Mentre sono ancora sulla scala, ho davanti agli occhi una fotografia, fra le tante viste poco prima nel Lager. È la fotografia di un uomo senza nome, probabilmente, dall’aspetto, un balcanico, un europeo sudorientale. Il viso è sfigurato dalle percosse, gli occhi sono due grumi gonfi e sanguinosi, l’espressione è paziente, di umile e solida resistenza. Indossa una giacca rattoppata, sui calzoni si vedono delle pezze ricucite con cura, con amore del decoro e della pulizia. Quel rispetto di sé e della propria dignità, conservato nel cuore dell’inferno e rivolto anche ai propri pantaloni sbrindellati, fa apparire le uniformi delle SS, o delle autorità naziste in visita al Lager, in tutta la loro miserabile straccioneria da carnevale, costumi presi a nolo al monte dei pegni, con la convinzione che un bagno di sangue li potesse far durare per un millennio. Sono durati dodici anni, meno della mia vecchia giacca a vento che porto di solito in gita.

da Claudio Magris Danubio