Monfalcone, Cantieri e revisionismo. Dalla coscienza di classe all’identità locale

pubblicato sul blog degli storici del Friuli Orientale: La Storia Le Storie

Monfalcone è la città dei cantieri navali, non è certo una novità. Dal 2008 – anno del centenario della fondazione degli stabilimenti – in poi si sono infittite le iniziative storico culturali volte ad approfondire le vicende che legano la grande fabbrica alla piccola città. Nell’ultimo periodo abbiamo visto uno stillicidio di questo genere di proposte che sono piovute fitte come grandine estiva e come questo tipo di fenomeno metereologico portando poco ristoro e talvolta facendo danni.

Ultimamente tutto ciò che riguarda la cantieristica tende a escludere la classe operaia. Questa la costante.

Una mostra sugli idrovolanti costruiti nei cantieri di Monfalcone si è tenuta a Trieste di recente. Mostra iconograficamente molto bella, ma in cui la classe operaia era del tutto assente con invece un’apoteosi dei Cosulich, degli ingegneri e dei piloti. Segnalando questa grave mancanza la laconica risposta ricevuta è stata: “Eh, non possiamo mica mostrare proprio tutto dei cantieri in una mostra piccola come questa, ci siamo limitati alle cose più importanti”. Gli operai non sono cose ma non sembrano sufficientemente importanti da comparire ugualmente.

È stato presentato il 9 giugno a Monfalcone ed in seguito è stato trasmesso in televisione il documentario voluto dall’amministrazione regionale e da quella comunale uscente, entrambe targate PD, “Dal mare, alle navi, alle case. Panzano città giardino del cantiere di Monfalcone”.

Quest’opera è stata criticata in particolare per la scomparsa – anche in questo caso – della classe operaia. Non stupisce l’approccio. Pare che il centro sinistra abbia più cose da volersi far perdonare della destra rispetto a quello che ruota intorno al cantiere si parli di amianto (il recente necrologio della Cisint in occasione della morte di Duilio Castelli dimostra ancora una volta sensibilità su questo tema) o storico culturale (vedi tutte le intricate difficoltà degli anni scorsi per l’apertura di un museo della cantieristica che ha aperto solo ora). Della vicenda amianto il sindaco Cisint ha fatto una propria bandiera anche se non sempre scevra di derive populiste. Il termine “amianto” deriva dal greco amiantos “incorruttibile”. Proprio come l’immagine che il sindaco vuole dare di sé.

Il documentario presentato è stato criticato anche dalle colonne de “Il Piccolo” (lettere 24 giugno 2017, p. 23) dove Carlo d’Agostino del Rotary Club nota nel filmato la scomparsa della produzione di aereoplani e sommergibili. Giusto rilievo visto che quella produzione ebbe un’importanza nefasta nel trasporto delle truppe e nei bombardamenti della Spagna repubblicana 80 anni fa come abbiamo recentemente sottolineato in zona presentando la Mostra sulla Catalogna bombardata.

Marco Puppini ha già messo sotto la lente d’ingrandimento il Mu.Ca. sigla orrenda (già sentita storpiare in Sti.Ca. o Su.Ca.). Parliamo del Museo della Cantieristica. Lo potete trovare a Panzano accanto ai nuovi ingressi del cantiere in quello che era il vecchio albergo operai. Era un edificio giallo e marrone cadente: ora pare Versailles nella sua sgargiante tinta pastello. Come Versailles rischia di essere una reggia lontana dalla vita delle persone. Aggiungo a quanto scritto da Marco che a lasciare perplessi sono anche l’enorme dispendio di denaro, la mancanza del direttore e di altre figure e il fatto che il museo sia talmente tecnologico da essere perfino eccessivo per il genere di utenza potenzialmente interessata: cioè i vecchi cantierini. A parte le scolaresche che verranno condotte nei locali del museo, infatti, gli operai che entrano ed escono dagli adiacenti portoni del cantiere navale sono ben poco interessati agli ologrammi di una storia che non c’è più se non negli aspetti deteriori di cui il museo non parla se non di sfuggita. Le morti bianche che avevano fruttato al polo monfalconese il nome di “cantiere della morte” fin dalla sua apertura infatti continuano accanto agli altri infortuni. Il resto – anche se ben confezionato e tecnologicamente all’avanguardia – è noia visto con gli occhi di un lavoratore.

Dall’altra parte della città intanto si può visitare la mostra “Il villaggio di Panzano 1907/1927/2017” aperta proprio con la proiezione del documentario di cui sopra. In questo caso l’assenza della classe operaia colpisce meno visto il tema ma si nota il continuo insistere sulla razionalità della costruzione del villaggio di Panzano e sul buonismo e paternalismo dei Cosulich. Un particolare del primo pannello però ci può dare una chiave di lettura interessante. Qui infatti è riportato un articolo de “Il Piccolo” dell’epoca con un’intervista all’allora podestà di Monfalcone Bruno Coceancig (non ancora italianizzato in Coceani con il quale nome verrà nominato prefetto della provincia di Trieste durante il controllo nazista e il periodo di funzionamento della Risiera di San Sabba che non contestò in nessun modo).

Stile fascista e audacia italiana sarebbero le caratteristiche di questa opera secondo Coceancig. Forse non è solo la retorica dell’epoca (siamo nel 1927, l’anno che si apre con la creazione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato).

Nel suo articolo Marco Puppini cita lo stadio di calcio di Monfalcone. Quello che non dice è che lo stadio che tutti chiamano Cosulich in realtà è intitolato a Costanzo Ciano. I Cosulich del resto foraggiavano ampiamente le squadracce fasciste durante il ventennio fino a fornirgli oltre che i denari anche i camion e perfino la cocaina. Questo però resta nel non detto.

L’operazione culturale in corso in fin dei conti ha come obiettivo quello di darci una ricostruzione “pulita” della nostra storia. Facendo questo ci toglie le lotte degli operai ma anche le porcate dei fascisti e dei padroni. Non piace a nessuna parte politica ricordare che un tempo c’è stata una classe operaia orgogliosa e forte che per conquistare (talvolta persino riuscendoci) i propri diritti lottava e moriva. Delle persone che per vivere o spesso sopravvivere soffrivano spesso e talvolta dovevano emigrare.

L’operazione in corso ha l’obiettivo non solo di occultare tutto questo ma anche di trasformare la profonda e radicale coscienza di classe ed internazionalismo degli operai monfalconesi. Si vuole fare della vita di cantiere – ma ben ripulito dagli aspetti scomodi – un tratto identitario perché se “Mofalcon no xe più quella” restiamo noi: gente venuta cento anni fa da ogni parte dell’Adriatico per lavorare nel neonato Cantiere Navale Triestino, che per sentirci qualcosa di diverso rispetto a chi ora ci arriva dai Balcani o dal Bengala, abbiamo bisogno del mito del cantiere non della sua storia.