NEL TEATRO DEGLI ORRORI DELLA PSICHIATRIA – INTERVISTA A PIERPAOLO CAPOVILLA

Mentre la storica band Teatro degli Orrori sta per tornare a Trieste con un suo concerto proponiamo una intervista al front man PP Capovilla comparsa su 180°.

Ladies and gentlmen, il Teatro degli Orrori è tornato. La rock band più importante della musica indipendente italiana è di nuovo sul palco e torna alle origini, con un album che è un pugno nello stomaco. Anzi una mitragliata: dodici jab che tolgono il fiato. Lasciando a bocca aperta ma soprattutto ad occhi spalancati. Dodici brani rabbiosi che fanno letteralmente vedere ciò che molti autori nostrani tendono ad ignorare. «È in atto – dice Pierpaolo Capovilla, carismatico frontman del gruppo – un processo di autocensura nella musica italiana. Ho l’impressione che molti di noi abbiano paura di pestare i piedi al potente di turno. Io non ho paura di pestarli proprio a nessuno, anzi, non vedo l’ora! Non ho niente da perdere: sono un’artista. L’unica cosa che potrei perdere è la dignità, quella artistica, professionale e anche politica. E quella cerco di tenermela stretta e di farne esercizio ogni qualvolta che posso».

Il Teatro degli Orrori ritorna a raccontarci di noi. Di un Paese allo sfacelo, anestetizzato nelle gabbie di un manicomio chimico. Vero o metaforico che sia. Il nuovo album non ha titolo, e non si riuscirebbe a dargliene uno. Sono tante storie, immagini differenti, ma anche provocazioni e denunce. A partire da quella contro il business degli psicofarmaci e contro la pratica della contenzione. La band sostiene infatti la Campagna promossa dal Forum Salute Mentale. «È una cosa ufficiale. Cercherò di fare di tutto perché si arrivi una proposta di legge per l’abolizione della contenzione meccanica».

Il tema della psichiatria è affrontato in ben due canzoni di quest’ultimo lavoro. “Benzodiazepina” e “Slint”. Viene da chiedersi come mai un gruppo rock si sia avvicinato a questi temi. «In parte perché nel momento in cui scrivevo i pezzi, una decina di mesi fa lessi “Il manicomio chimico” di Piero Cipriano e ne rimasi molto colpito. Avevo appena scritto Benzodiazepina, che inizia proprio “rapinandone” il bugiardino. Il brano apre con l’elenco degli effetti collaterali. Li ho poi immaginati operanti nella vita reale di una persona che fa uso di questa sostanza. Contattai allora Piero, anche per avere un consiglio sul pezzo. Grazie a lui ho conosciuto il Forum Salute Mentale e ho cominciato ad approfondire. Ne sapevo poco. Sono rimasto impressionato da ciò che è il commercio degli psicofarmaci nel mondo. È uno scandalo. C’è una statistica incontrovertibile sulle speranze di vita di chi fa uso per lunghi periodi di psicofarmaci: diminuisce di circa 20anni. La cosa che stupisce di più è la loro diffusione epidemica. È un commercio enorme ed estremamente lucroso. Anche un veterinario può prescriverti uno psicofarmaco da dare al cane. Tante cose poi le avevo già vissute nella mia vita: mi viene in mente Cecilia, un’amica e artista che faceva uso di psicofarmaci e che una notte morì d’infarto, all’improvviso».

La tematica psichiatrica non è del tutto nuova nel discorso di Pierpaolo. Già in Obtorto Collo, il suo album solista dell’anno scorso, aveva dedicato un brano alla morte di Francesco Mastrogiovanni e aveva parlato della violenza del TSO. «C’è una frase famosa di Andreotti: “a pensar male si fa peccato ma spesso si indovina”. È l’unica cosa con cui sono d’accordo con lui. Mi viene il sospetto che il sistema psichiatrico in Italia venga usato contro i cittadini. Che non si tratti più di curare chi ha bisogno di aiuto ma di infliggere punizioni a persone scomode nella società. Sta diventando un’arma dello Stato: mi torna in mente la vicenda di Karima, la donna egiziana che a Torino protestava perchè il marito era finito nel CIE. Non avendo motivo di arrestarla le hanno fatto un Tso e i figli li hanno mandati in una comunità. Francesco Mastrogiovanni era un anarchico e amava farsi beffa del potere, magari anche della divisa. Ho approfondito la vicenda dell’omicidio, ho avuto modo di parlare con la nipote e con il senatore Manconi di questa terribile vicenda. Quando sono andati ad prenderlo non ci voleva andare, aveva paura di essere ucciso. E infatti è rimasto legato, affamato, riempito a dismisura di psicofarmaci per 82 ore: quell’uomo è stato ucciso a sangue freddo».

L’affresco che esce da questo nuovo disco è corale e cupo, ma anche intensamente collettivo. Parla di un’Italia che non cambia perché non vuole cambiare. Eppure ci sono cose che devono cambiare assolutamente. E in fretta. «Per quanto delusi e disillusi ci sono cose su cui è giusto e doveroso dare battaglia. Quello che stiamo facendo noi come Teatro degli Orrori è parlarne, cantarne. Dopo le canzoni nascono le riflessioni. Poi ci sono i concerti, queste interviste e altro ancora. La gente non sa cos’è un Tso. Non conosce la pericolosità degli psicofarmaci. Adesso che le ho scoperte le trovo allarmanti. Intendo fare un’opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Da qualche parte bisogna pure iniziare».

Spesso si scoprono cose, ascoltando le canzoni del Teatro degli Orrori. Storie nascoste e potenti, bellissime o tremende. In ogni caso lontane dai riflettori e dagli sguardi. Storie che vale la pena portare in superficie e cantare su un palco. Con buona pace della canzonetta d’amore. «Gli artisti se ne fregano di questi argomenti. Anche riguardo all’amore: si dimenticano che è un rapporto sociale e lo raccontano sempre nella stessa identica maniera. Addirittura senza rendersene conto dicono cose gravi. Per esempio “io non ti voglio ti pretendo, sei l’unico diritto che ho” (si riferisce alla canzone di RAF, NdR) ma che diavolo di discorso è?»

Benzodiazepina quindi, e il suo elenco di controindicazioni che sfociano in un’allucinazione sonora, in una rissa mentale. Ma anche Slint, con quell’immagine bellissima dei cormorani che si tuffano a capofitto nell’acqua. «Amo i cormorani. Ho sempre passato ore ad ammirarli e li trovo stupendi. Vedo in loro la bellezza della natura e del creato: volano, camminano, nuotano, sono l’esempio paradigmatico di simbiosi con la natura. Cosa che noi esseri umani abbiamo perso. Noi siamo antitetici alla natura».

Slint è un pezzo molto complesso, già dal titolo. È una parola che non esiste in inglese ma esiste nell’urban dictionary, un’espressione colloquiale. «Con Slint si intende un sottilissimo raggio di luce. Ma è anche il nome di una band anni ’90 che è stata cruciale per noi. Uno di quei gruppi che ti cambia la vita. Ho pensato dunque ad un uomo, che potrei essere io, costretto in un servizio psichiatrico e imbottito di farmaci. Quest’uomo vede un raggio di luce attraversare la stanza e pensa ad una canzone degli Slint. Riconosce la sua storia, la sua biografia, riesce a riannodare il filo che lo lega alla sua adolescenza, ai suoi 20 anni. Per questo gli viene in mente l’immagine dei cormorani a Venezia, sua libertà originaria. Oggi viviamo in un eterno e reiterato presente. Dimentichiamo il passato, non solo quello pubblico ma il nostro stesso passato biografico. Troppe cose da fare, troppe cose a cui pensare. Insomma è una canzone sulla sofferenza legata all’uso degli psicofarmaci e della contenzione, anche meccanica. Ma è anche un brano sulla terapeuticità della musica. Nel senso più profondo. La musica ti rende possibile riconoscere la tua storia, come una madeleine proustiana. Quando ascolto un disco rispolvero i miei ricordi, improvvisamente ricordo un sacco. Se ascoltassi Breakfast in America dei Supertramp ritornerei senza neanche volerlo, in maniera inconscia ai miei ricordi e sentimenti di adolescente. Altro che psicofarmaco, altro che psichiatria! La musica è cruciale, ti fa da colonna sonora, può aiutare a ritrovare te stesso. Questo è il messaggio profondo della canzone».