Psichiatria Modernità Olocausto

La verità è che ogni “ingrediente” dell’Olocausto – tutte le cose che lo avevano reso possibile – era normale; “normale” non nel senso di familiare come può esserlo un nuovo esemplare appartenente a una vasta classe di fenomeni già da tempo esaurientemente descritti, spiegati e classificati (al contrario, l’esperienza dell’Olocausto fu nuova e sconosciuta), bensì nel senso della piena coerenza con tutto ciò che sappiamo della nostra civiltà, del suo principio ispiratore, delle sue priorità, della sua immanente visione del mondo, nonché della corretta maniera di perseguire contemporaneamente la felicità umana e una società perfetta.

Z. Bauman Modernità e Olocausto, Il Mulino, Bologna, 1992, pag. 26

E continua: «Tolta la ripugnanza morale dei suoi obiettivi (o, per essere precisi, la scala smisurata dell’obbrobrio morale), tale attività non differiva in alcun senso formale (l’unico senso esprimibile nel linguaggio della burocrazia) da tutte le altre attività organizzate, programmate, seguite e controllate dalle “normali” sezioni amministrative ed economiche» (ivi, pag. 33). Bauman è uno dei massimi studiosi del tema. Le sue parole devono farci riflettere.

Vidal-Naquet, nella prefazione ad un libro che racconta la partecipazione di uomini normali alla soluzione finale, cita Raul Hilberg, che ha cercato di comprendere, e quindi di mettere in ordine ed in sequenza, le tappe della politica di discriminazione del Reich sotto Hitler.

Il primo punto è la definizione: chi è ebreo? chi è comunista? chi è zingaro? chi è omosessuale? (e di conseguenza, chi è ariano, patriota ecc.). Segue la marcatura o il contrassegno (per esempio: le stelle di vario colore, secondo la categoria). E quindi l’espropriazione: perdita di alcuni diritti e possibilità che altri assumano decisioni per la nostra esistenza. Il passaggio seguente è quello della concentrazione, cui segue la deportazione in un luogo separato, le vittime devono morire (i centri della morte).

Vi sono individui, donne e bambini, che corrono il rischio, a distanza di decenni dalla politica hitleriana, di percorrere le stesse tappe di un percorso analogo: immigrati, tossicodipendenti, handicappati. Il percorso può essere attivato per ragioni che hanno a che fare con l’organizzazione, con la gestione ed il controllo della spesa. Il primo passo è proprio quello della definizione della categoria: sembra una necessità legata alla giustizia (definire con precisione l’invalidità, in relazione ai tanti imbrogli di falsi invalidi; definire le regole dell’immigrazione, per sgomberare il campo dai clandestini…). Ne consegue il problema della riconoscibilità, magari per consentire elargizioni particolari. E dato che i costi di una distribuzione differenziata ed individualizzata possono essere considerati elevati, vi può essere la convenienza di concentrare la risposta al bisogno, reso in questo modo omogeneo ad una categoria.

Questo può comportare la perdita di alcune possibilità di scelte individuali, perdita che viene giustificata dalla stessa necessità di dare risposta, con costi contenuti, a specifici bisogni.

A. Canevaro, A. Chieregatti La relazione d’aiuto. L’incontro con l’altro nelle professioni educative, Il Mulino, Bologna, 1999, pag. 33-34