Quarantena molotov. Normalissime evasioni

su Alpinismo molotov

Vado al lavoro a piedi per sgranchire le gambe, pochi chilometri. Il lavoro è ai minimi termini. Nel centro di accoglienza del resto l’atmosfera è ancora più claustrofobica che a casa. Se a questo aggiungi che con questa emergenza sono chiusi ufficio immigrazione e commissione territoriale ti rendi conto dello stato di attesa in cui sono sospesi i richiedenti asilo con questo ulteriore rinvio, per di più da trascorrere in stato di cattività. Non stupisce che alcuni stiano andando fuori di testa in questa reclusione forzata. Se loro vanno a fare quattro passi subito vengono notati. Ci stiamo riscoprendo un popolo di spie. I paesani si sentono autorizzati ad ammonirli o a riferire delle loro uscite ad amministratori o cooperanti dell’ente gestore.
Camminando gli sguardi degli altri intimoriscono anche me. Incrociando un anziano sul marciapiede ci guardiamo di sbieco. Entrambi siamo inottemperanti alle regole assurde che ci vengono imposte in questo periodo di quarantena. Del resto ogni giorno cambiano ed è quasi impossibile starci dietro. Emerge il senso di colpa atavico che pare impossibile scrollarsi di dosso. Incrostazioni cattoliche immagino. “A catholic block inside my head” dice una canzone che ora mi risuona in mente…
Vedo una conoscente. È tanto tempo che non la incontro. Impossibile far finta di non averla vista. Saluto per primo. Lei, chiusa nel recinto della sua casa, prima ancora di ricambiare il saluto, mi chiede se ho fatto l’autodichiarazione per muovermi. Io non ce l’ho. Non l’ho mai fatta. Se servirà me la faranno fare le guardie. Balbetto le mie ragioni che paiono comunque delle scuse. La farmacia, un passaggio al lavoro.
La caccia all’untore è aperta. Taglio corto e mi dirigo fuori dal paese. La sensazione paranoica non migliora. Le rare macchine che mi sfrecciano accanto mi fanno sussultare ogni volta. Per fortuna non è la polizia. Neanche questa volta.

Poi però ci sono i campi, la grazia del vivere in provincia. Li scelgo per tagliare la strada e per allontanarmi da ciò che sa troppo di uomo e a quelli di loro che indossano una divisa in particolare. A ogni passo le scarpe diventano più pesanti di fango, a ogni passo il cuore è più leggero. È anche così che si resiste contro il Corona virus, tra i campi, lungo sentieri pesanti di pioggia, con la bora che sferza.
Passo per il “Brasil”, una zona del paese. Viene chiamata così perché qui al concludersi della seconda guerra mondiale si accamparono le forze militari brasiliane che combattevano con gli alleati. Non ho mai visto una foto di questi brasiliani eppure hanno lasciato permanentemente un segno che rimane nella toponomastica non ufficiale.
Saranno forse le lenzuola colorate, con il loro ottimismo inopportuno che mi sa sempre di idiozia e che in maniera un po’ ingenua e naïf sono appese a diversi balconi con l’hashtag #andràtuttobene, ma mentre rientro mesto a casa mi sorprendo a pensare a come le vie per la liberazione siano sempre meticce e multicolore. Per ora solo fantasie.
Mentre la primavera sta arrivando, nonostante le nubi, all’orizzonte le Alpi sono ancora innevate e troppo lontane.