Ricariche ovvero nella cooperativa di handicappati

dal capitolo “Ricariche” in Vitaliano Trevisan Works, pp. 372-374

06/04/95- In una cooperativa di handicappati, come quella che ho sotto gli occhi, si comprende chiaramente come il lavoro altro non sia se non un’invenzione dell’uomo per contrastare l’insensatezza dell’esistenza, per rendere più leggero il peso di quell’insensatezza.

“Dunque che cosa collega la tendenziosa domanda di Mr Chess — Why do you work? –, le articolate risposte dei miei compagni di corso, la laconicità della mia, e la relativa constatazione di ritrovarmi, come troppo spesso, in nettissima minoranza((Il che, e non bisogna mai dimenticarlo, in questo putrescente regime di democrazia maggioritaria — che per carità, resterà pure il meno peggio di tutti i regimi possibili, ma sul fatto che sia putrescente non c’è dubbio –, è sempre un problema con cui fare i conti. E ora che ci penso, che resti il meno peggio, da un po’ di tempo a questa parte, forse anche questo è da dimostrare; all due respect per i padri fondatori s’intende.)), la cooperativa di handicappati di cui mi ritrovai a essere ospite, e le relative riflessioni sull’inutilità del lavoro, o meglio sulla sua utilità solo in quanto mezzo per riempire, e così facendo distrarre da se stessi e dal loro vuoto, una maggioranza di vuoti esistenziali che, proprio perché vuoti, sembrano avere una spasmodica necessità di rendere se stessi reali attraverso il lavoro? E naturalmente, hanno anche così tanta necessità di crederci davvero, da non poter fare a meno di ripeterlo agli altri ogni qualvolta se ne presenti l’occasione.
Ed erano tutti così convinti, gli educatori di quella cooperativa, così certi dell’eticità del lavoro, del loro in particolare, in quanto mezzo di realizzazione di se stessi, da non avere alcun tentennamento o scrupolo nell’imporre anche agli altri i comandamenti della loro fede, e nella fattispecie ai loro handicappati, venendoci poi a dire, in perfetta buona fede, come fece M, l’educatore con cui parlavo più spesso, che così facendo realizzava se stesso negli altri; altri di cui evidentemente dava per scontate moltissime cose, non ultima che la loro vita, evidentemente in quanto handicappati, fosse vuota per definizione; e che essi non fossero in grado, questa volta dando per scontato che comunque si rendessero in qualche modo conto del vuoto per definizione delle loro vite, di saper provvedere a riempirselo da soli, magari non necessariamente lavorando.
Di sicuro il down C, che si trovava spesso a lavorare dalle mie parti, che regolarmente, quando nessun educatore era in vista, condivideva le mie pause — e le mie sigarette –, avrebbe preferito fare altro che quei lavori di assemblaggio che, a sentir lui, lo annoiavano a morte, ma a cui non poteva sfuggire, operando la cooperativa proprio nel campo dell’assemblaggio conto terzi di semilavorati, prevalentemente in plastica, e risolvendosi perciò il suo lavoro, intendo del down C, ma anche quello dei suoi compagni di sindrome, che costituivano la maggioranza dei lavoranti, in una serie di gesti ripetitivi e sempre uguali, in cui contava solo il numero di pezzi assemblati e di qualità non v’era traccia. Né mi sembrò che detti lavoranti soffrissero di quel lavoro così noioso, ripetitivo e alienante meno di quanto avrebbero sofferto delle persone cosiddette normali. Di fatto, in quel posto, gli unici a sentirsi realizzati, o almeno a dirsi tali, erano solo i cosiddetti educatori, che erano poi anche gli unici a non dover fare sempre e di continuo quei lavori noiosi, ripetitivi e alienanti che imponevano alle loro vittime, essendo il loro lavoro, ma a questo punto la loro missione, appunto quella di realizzare se stessi negli altri imponendo a questi ultimi quei lavori noiosi, ripetitivi e alienanti che, dando per scontata un’altra cosa ancora, ritenevano essere gli unici a essi adatti. E non posso fare a meno di aggiungere che quei cosiddetti educatori che davano così tante cose per scontate rispetto alla natura delle persone loro affidate, che pretendevano di conoscere così bene da sapere in assoluto che cosa fosse o non fosse giusto per loro((Avere una morosa, per esempio, com’era il caso del down C, che me ne parlava sempre, nel senso che ogni volta che si usciva insieme a fumare le mie sigarette mi diceva appunto che aveva la morosa (anche lei down), ma che potevano vedersi non più di due tre volte a settimana, e mai senza almeno un parente o un educatore presente, mentre lui, ma anche lei, mi diceva ammiccando, avrebbero voluto starsene un po’ da soli, se capivo cosa voleva dire. Ora, capivo cosa voleva dire? Forse sì, forse no, ma quel che è certo è che anche solo la possibilità di ciò che forse avevo capito, o forse no, era negata da quel tribunale superiore di loro nonpari, che è lo stesso tribunale che propugna strenuamente una presunta e non ben specificata uguaglianza tra persone disabili e cosiddette normali, e stigmatizza ogni forma di cosiddetta discriminazione linguistica.)), erano poi gli stessi che, di fronte alla parola mongoloide, o handicappato, inorridivano, ed erano sempre pronti a lanciarsi in una filippica, che naturalmente non ammetteva repliche, contro la discriminazione dei disabili, o dei diversamente-abili — non so se all’epoca si fosse già arrivati a quest’ultima perversione linguistica — che dette parole, secondo loro, sottintendevano in chi le pronunciava, né erano disposti a riconoscere quantomeno l’implicita contraddizione tra quanto davano per scontato nei fatti e poi negavano a parole, come mi accorsi quando provai ad affrontare la questione con l’educatore M, che si rivelò assolutamente impermeabile, cosa che non gli impedì comunque di irritarsi oltre misura e di lanciarsi appunto in una filippica cui mi sembrò del tutto inutile replicare. Alla fine, l’unica cosa che mi sento di dire è che, al momento di lasciare la cooperativa, non mi era affatto chiaro se fossero gli handicappati ad aver bisogno dei loro educatori, o viceversa”.