richiedenti asilo e lavoro

articolo comparso su Germinal 127 di maggio 2018

C’è una volta uno spettro, per i razzisti, che si aggira per l’Europa. Anzi esattamente 171.332, cioè quanti sono stati nel 2017 i richiedenti asilo sbarcati sul suolo del vecchio continente con i suoi quasi 800 milioni di abitanti. Ma chi è il richiedente asilo? È chi, avendo lasciato il proprio paese, chiede il riconoscimento dello status di rifugiato o di altre forme di protezione ed è in attesa di una decisione da parte delle autorità competenti riguardo alla definizione legale della propria condizione. Secondo i formali accordi internazionali, il rifugiato è “chiunque nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato”. Così è definito, a partire dal 1951, dalla Convenzione di Ginevra, firmata da 140 Stati, tra cui l’Italia, ed entrata in vigore nel 1954. Tutta la legislazione successiva italiana deriva da quella radice. Tale forma legale nasce in un periodo in cui – finita la Seconda guerra mondiale – si determinarono i confini degli Stati dei nascenti blocchi contrapposti nella Guerra Fredda con i conseguenti spostamenti di persone. L’impatto sull’Italia riguardò in particolare coloro che giunsero dalle terre ad est del mare Adriatico annesse dopo la Prima guerra mondiale e poi snazionalizzate dall’Italia fascista. Sono i cosiddetti “esuli giuliano-dalmati” il cui numero è tutt’oggi oggetto di mistificazione e di gestione nazionalista e revanscista. Nel complesso, la questione dei rifugiati fu uno dei temi più scottanti che dovettero affrontare le potenze mondiali nei dibattiti interni alle organizzazioni sovranazionali sorte dopo la conclusione del confitto. Ora, per la prima volta dal 1945, il numero di rifugiati, richiedenti asilo e sfollati interni in tutto il mondo ha superato il livello di 50 milioni di persone. Si calcola che oggi in tutto ci siano 65.6 milioni di persone costrette a fuggire dal proprio Paese. Di queste, circa 22.5 milioni sono rifugiati, più della metà dei quali di età inferiore ai 18 anni. Risulta difficile fare un parallelo tra le migrazioni post belliche e quelle attuali. Diverse le dimensioni, diverso il periodo storico e il contesto internazionale, diversi i progetti migratori, diverse le rotte. Sicuramente le migrazioni portano degli elementi perturbanti: ciò che si muove spaventa una parte delle comunità stanziali. Oggi la situazione è marcatamente contraddistinta da una stigmatizzazione del migrante come mai accaduto in precedenza. Lo possiamo verificare nei discorsi di politici e media, ormai condivisi da molte persone. Capita che persino coloro che, fino a non molto tempo fa, ci trovavamo accanto come compagni in lotte per l’emancipazione sociale utilizzino parole, categorie e concetti passati attraverso la vulgata razzista. Ad esempio si sente spesso citare espressioni come invasione massiccia, operai (o terremotati, disoccupati ecc.) in strada e immigrati negli hotel, 35 euro al giorno per non fare nulla, telefonini di nuova generazione eccetera. Slogan miseri, ma dalla grande presa che sono penetrati nel discorso comune e lo pervadono, banalizzano e lo livellano verso il basso. Sembra quasi impossibile riuscire a problematizzare per cercare di dare al quadro la sua complessità. Lo spettro del richiedente asilo ci spaventa perché in qualche modo ci rappresenta. Rappresenta la nostra cattiva coscienza di occidentali che, con il (neo)colonialismo o con guerre più o meno “umanitarie”, hanno prodotto quei flussi che poi si cerca di arginare con muri, blocchi, gabbie, oltre che con indifferenza e perfino odio. Ci rappresenta anche perché ci somiglia sempre più quando siamo catturati nelle nuove forme di sfruttamento e precariato. Quante volte, ad esempio, per trovare lavoro i giovani sono costretti a fare volontariato gratuito agli eventi culturali? Queste forme d’impiego – in realtà puro sfruttamento – sono sempre più diffuse, camuffate da volontariato, tirocini, stage, alternanza scuola-lavoro o altro. I richiedenti asilo ospitati presso centri di accoglienza o SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) da parte loro sono “costretti” a prestare la propria opera, sempre più spesso, in lavori di pubblica utilità, anche se la cosa non è stata ancora resa obbligatoria per legge come proposto da alcune parti. Ma si tratta davvero della stessa cosa? Possiamo sovrapporre lavori “volontari” nei centri SPRAR e tirocini non pagati di giovani laureati? Di comune c’è il finto buonismo paternalista di un sistema di accoglienza da una parte o d’ingresso al lavoro dall’altra. Entrambi le condizioni di subordinazione stanno celando in questo modo il proprio lato disumano. Dietro al giovane laureato c’è il disoccupato, dietro al migrante che docilmente lavora per qualche amministrazione comunale c’è il ricatto esplicito: puoi essere espulso se non ti adatti alla disciplina del sistema. Capita che con questi lavori le amministrazioni che accolgono (e che non hanno nessuna spesa di ospitalità) possano approfittare per fare tagli nelle spese previste dai bandi di gara per lavori di manutenzione. Le attività richieste sviliscono le persone che talvolta possiedono competenze di gran lunga superiori a quelle necessarie per uno sfalcio e per spazzare una via. Ecco che emergono dati simili: fare cassa su lavoro non pagato e al tempo stesso non riconoscere le competenze di chi viene impiegato in questi lavori sono elementi comuni a giovani e richiedenti. Ci sono però evidenti tratti che distinguono queste due realtà. Qualsiasi valutazione dei “lavori volontari” infatti va problematizzata alla luce di un contesto caratterizzato da un lato da una diffusa profonda ostilità verso il diverso e dall’altro da una sorta di comprensione verso chi cerca un primo impiego. Da più parti si esprime un pregiudizio verso gli stranieri che sembrano sempre di più e comunque troppi. A dare l’impressione di questa eccedenza è anche una gestione sempre e solo emergenziale dell’accoglienza che vuole concentrare grandi numeri di persone in centri di centinaia di persone con tutti i disagi conseguenti. C’è però, per chi decide questi concentramenti, il vantaggio di poter sfruttare l’argomento migranti a proprio vantaggio soffiando sul fuoco dell’insicurezza e della perdita presunta del decoro. Si creano così grossi numeri di persone che spesso non hanno nulla da fare e si alimenta il pregiudizio avverso. Il tempo libero, in realtà, è una delle peggiori angustie per chi è in attesa di sapere quale sarà il proprio destino e aspetta una convocazione dalla commissione territoriale o spera non giunga un decreto di trasferimento verso un paese in cui si è presentata in precedenza la richiesta di protezione. Detto questo, non si può non notare come il fatto di lavorare all’interno delle comunità in cui vengono ospitati permette ai richiedenti asilo di farsi ri-conoscere e al tempo stesso conoscere. Questa conoscenza reciproca è alla base di una dignitosa integrazione e della decostruzione dello stigma e talvolta comporta l’opportunità di conoscere possibili datori di lavoro e di acquisire nuove competenze, certificate o meno. Il problema vero sono le politiche di accoglienza con al centro le persone reali (con bisogni, diritti, desideri) inserite in un processo complesso e contraddittorio. Solo se sono inserite, in maniera coerente in un processo virtuoso di accoglienza, queste pratiche “volontaristiche” sono accettabili. In questi tempi si può verificare di persona che non è facile scegliere dove e come muoversi in quanto antirazzisti e libertari. Probabilmente qualsiasi scelta presenta problemi e rischi e perfino contraddizioni. Il fenomeno migratorio è ormai strutturale e massiccio. Per rispondere agli interrogativi e bisogni che questo fatto ineluttabile ci pone, è necessaria una grande rete strutturale organizzata. Purtroppo, al momento attuale, il movimento anarchico, anche se collabora con i non molto presenti movimenti antagonisti dei nostri territori, non è assolutamente in grado di dare delle risposte adeguate alla dimensione dei problemi della vita pratica dei migranti. In effetti, la sfida è di riuscire ad innescare processi emancipatori da parte dei migranti stessi. Per fare questo è probabilmente inevitabile entrare in contraddizione con alcuni principi cardine dell’ideale e della sensibilità anarchica che vorrebbe proporre l’uso di mezzi coerenti con il fine. Alla libertà attraverso la libertà, sarebbe la via coerente. È evidente che le istituzioni statali e clericali dominano, con un sistema di aiuti e di controlli, la vita di chi si trova in difficoltà oggettive e non ha la forza per liberarsi. In teoria i migranti, almeno quelli giovani e sani, hanno una notevole possibilità di lottare per una società umanamente sostenibile. Spesso, anzi quasi sempre, le loro condizioni di vita estremamente precarie e problematiche li spingono verso l’immediata copertura di gravi e urgenti bisogni personali. Ritenere del resto che una persona solo perché appartenente ad una minoranza in qualche modo oppressa sia di per sé un soggetto rivoluzionario è un intellettualismo che non possiamo continuare ad alimentare. La realtà ci ha dimostrato molte volte che non c’è niente di così automatico. Per chi pensa ad un futuro libero da ogni forma di autoritarismo oggi si pone una scelta difficile tra realismo assistenziale e progetti di emancipazione globale. L’alternativa è forse quella di preservare la propria coerenza limitandosi a rivendicazioni antirazziste o a piccole azioni di sostegno?