Storia di Roberto

da Sconfinamenti n. 6, dicembre 2004

Ero come il milite ignoto della Russia e mi picchiavano.

Roberto

Nel ’41 a mezzanotte sono nato io nel civile, mia mamma ha subito uno shock perché ero nato in tempo di guerra: bombardavano Treviso, Padova, Milano, Roma, Napoli…

Quando non lavoravo da ragazzo andavo al campo scuola a Paderno, o a fare il bagno nella roggia, poi ero elegante: la farfallina celeste, gli occhiali, il cappellino.

Nel 1945 a quattro anni ero all’Olimpia e gli americani applaudivano, andavano per strada, davano cioccolata, sigarette, caricavano le donne: era una meraviglia. Poi finita la guerra sono passati i carri armati in viale Tricesimo, facevano buche nell’asfalto così.

L’Opp di Udine, un distaccamento di partigiani, soldati rientrati dalla Russia e dai distaccamenti tedeschi quando venivano con i treni merci tutti ammucchiati i soldati. Era la milizia, no. Quando vedevano qualcuno ubriaco per le vie, all’una, mezzanotte, li portavano al comando e li interrogavano.

E poi erano le guardie di settore. Eravamo nel ’41 e ’45 quando gli americani hanno vinto la guerra e Hitler li deportava in Germania. Li portavano a Villaco. Dopo i rastrellamenti quelli che davano i numeri li pigliavano e la pubblica sicurezza li portava a Sant’Osvaldo, erano medici tedeschi, inglesi, francesi e austriaci. Quando è stato fondato quel nosocomio i tutori dell’ordine facevano rastrellamenti per le vie, poi erano donne di strada – case chiuse – dove i soldati andavano a soddisfarsi. Era la Marylin Monroe. E poi in Austria erano le guardie confinarie: Austria, Jugoslavia e a Milano.

Milano dove faceva conferenza Mussolini al popolo italiano e diceva queste parole: «Chi mi ama seguitemi chi non mi ama retroceda!» allora il popolo era tutto unito.

A me mi hanno pigliato e mi hanno mandato dalla Germania col foglio di via e mi hanno fermato a Verona in stato confusionale. Mi hanno portato prima all’ospedale civile, ma siccome non davo segni di miglioramento mi hanno mandato a Bologna; a Bologna erano Maganzani, Colombati (il direttore), Leoni (primario) e Patamia (psicologo, psichiatra psicanalitico):

quattro psichiatri internazionali. Volevano sapere le motivazioni per cui sono andato in Germania. Gli ho spiegato che ero senza lavoro e sono andato in Germania per un pezzo di pane. Una famiglia in Germania che mi ha ospitato – mi stirava le camicie, le maglie, i calzoni e le cose intime – andavo a lavorare da Feclof. Il padrone mi voleva bene. Quando sono andato via di là, se non mi ammalavo sposavo Marita: era bella la tedesca, dio… Poi lei andava a scuola di ballo classico e ballava – era campionessa di tango, io ho ballato con lei a Monaco dove fanno le gare di danza – era innamorata di me ma non la capivo e allora mi pigliava in giro – perché le tedesche sai come sono fatte: gli piace bere, ballare, sentire la musica… – e il lunedì tacano (1) nelle fabbriche l’andamento operaio.

A Bologna erano psichiatri che bisognava stare attenti ai movimenti che si faceva: era una clinica perfetta.

Dopo Bologna, Udine non voleva pagare le spese a Bologna e Colombati ha detto: «Il ragazzo è vostro venitelo a pigliare!» E quando sono venuti da Udine a pigliarmi con l’ambulanza il direttore era appena uscito e loro con documenti non giusti – io ero ingenuo, stavo bene nella clinica – mi hanno caricato sull’ambulanza e portato a Sant’Osvaldo.

Era il 1961 avevo finito il militare (18 mesi) e tre anni di lavoro in Germania. Il più bel ricordo è stato la Germania, mi volevano bene, ci aiutavamo uno con l’altro, siciliani, calabresi, napoletani… uno aveva la macchina e ci voleva una piccolezza – un due marchi – dalle baracche alla fabbrica Ford. Poi la fabbrica era grande, 50000 operai. Qualcuno mi ha fatto il malocchio per quello giravo la

Germania a vuoto, avevo la valigia, scarpe rotte, la neve era alta. Ho domandato lavoro in fonderia ma mi hanno detto che non ce n’era. Allora ho trovato una persona che mi ha aiutato e allora sono andato da Feclof di cui ti ho detto – stufe elettriche, fornelli gas – e la famiglia Hamer mi ha ospitato. Mi preparavano la merenda per mezzogiorno che si aveva un’ora di pausa. Poi venivano le segretarie a portarmi la busta, erano in minigonna – belle! – mi dicevano «Italienisch: diese Woche» e mi davano i soldi.

Quando mi hanno portato a Sant’Osvaldo e lì erano psichiatri che adoperavano sistemi feroci e pigliavano gli ammalati come bestie. Le bestie erano trattate meglio degli ammalati. I medici hanno ammazzato molti degenti all’opp di Udine. E poi tutti i degenti avevano un lavoro: chi imbianchino, chi muratore, chi meccanico, chi macchinista, chi magazziniere, guardaroba, cucina, panificio interno di Sant’Osvaldo, chi era con gli stradini. Dunque, quando mi alzavo alle 6 dovevo fare la doccia, alle 6 e mezza si faceva colazione e prima della colazione bisognava fare tutti i lavori interni. Io cambiavo lenzuola, federe, poi si passava il corridoio con la segatura e il lisoformio, quando non c’era la segatura si andava dai falegnami con le carriole. Il compito delle ammalate era quello di piegare le lenzuola, le federe. C’erano quelle handicappate che non avevano lavoro e venivano in lavanderia; in lavanderia tutti i reparti portavano la biancheria da lavare e ritiravano quella lavata. Toni Milisini – quello che gestiva la campagna di Sant’Osvaldo – aveva 364 campi e una cinquantina di mucche. Poi maiali, cavalli, galline, dindios (2).

Io lavoravo appena arrivato con gli imbianchini. Il direttore Mezzino mi aveva chiesto che lavoro avrei voluto fare. Io gli ho detto vorrei fare qualcosa. Allora mi ha detto: «Mettiamolo alla prova».

Mi faceva estirpare la gramigna dai giardini, poi si scopava le foglie dell’ospedale, si faceva cinema – diorama.

La domenica ci davano i biglietti e pigliavano un pochi per reparto e si vedeva il cinema – di guerra ecc. Delle volte si facevano gite, scampagnate…

Le cure erano pesanti. Mi davano serenase, trilofon – che ci faceva piegare la schiena – corpetti: uno legava testa mani e piedi e bisognava aspettare che tutte le acque siano esatte e quando veniva il direttore e diceva: «È tranquillo l’ammalato?». Qualcuno alzava la voce perché aveva paura.

Ogni tanto si veniva chiamati in farmacia insieme a un infermiere e si parlava del più e del meno e finito il colloquio il dottore chiamava l’infermiere e nel libro sala dava la terapia secondo l’ammalato. Tiravano addosso acqua ghiacciata per l’igiene. C’era anche il noan – un farmaco.

Quando facevano le gite erano contenti ma io pieno di serenase, trilofon

mi trascinavo in giro come un derelitto e gli infermieri si godevano l’aria della gita. In corriera mi veniva male. Non mi sento di parlare delle scosse, è meglio dimenticare. Quelli che hanno sbagliato è meglio chiamarli in provincia o meglio in tribunale e mettere sul Messaggero tutto quello che hanno fatto agli ammalati e alle ammalate. Chi si è annegato, chi si è impiccato, chi si è suicidato.

Gli altri malati: nessuno faceva niente, si sdraiavano nel cortile. Quando venivano i parenti venivano scacciati come cani. E quando c’era qualche decesso facevano pagare tutto il tempo che erano stati a Sant’Osvaldo.

Quando qualcuno era moribondo il prete veniva dopo che non dava più segni di vita vedeva se aveva anelli, orologi… le rette delle pensioni se le faceva dare dai familiari poi, quando uno decedeva, i becchini si presentavano con la macchina con le rose, con i fiori, con il cuscinetto e lo portavano nel cimitero di residenza. Lì la buca era scavata dagli addetti, poi dicevano la messa nella parrocchia e finita la messa caricavano nel carro funebre e lo seppellivano, il parroco del paese gli dava la benedizione, dicevano un quattro avemaria, due padre nostri, cinque atti di dolore e poi tornavano a casa. Mio papà è morto quattordici anni fa e sento ancora la sua mancanza. Quattordici anni che è morto… povero papà.

Io sono stato all’1, al 3, al 4 che l’hanno demolito, al 5, al 6: osservazione, all’8 al 10. Poi lavoravo per i reparti portare: incartamenti, cartoline, tutto quello che coincideva nel nosocomio. L’ultimo reparto in cui sono stato è stato il 16. Mi caricavano di serenase mi si giravano gli occhi mi dicevano fai questo fai quello. Ero come il milite ignoto della Russia e loro mi picchiavano.

Sant’Osvaldo: nell’ultimo periodo era cambiato tanto come vitto, come trattamento, come gentilezza, come coordinamento e come studi psichiatrici. Era cambiato tutto l’andamento di affetto, di responsabilità. Dimenticare quei posti e vivere una vita più serena.

Quando sono venuto qui in principio mi era un po’ a disagio e poi pian piano mi sono ambientato e vedo le cose cambiate. A Manzano mi sono ambientato subito e sto bene qui. La residenza di Manzano è un punto di riferimento sociale e ci rende autonomi dalla società.

La malattia mentale è una supposizione di inferiorità. Dipende dalle vedute farmacologiche, i dosaggi e le cure ambientali. Poi ognuno di noi dobbiamo sapere di essere autosufficienti e stare attenti di non cadere nel fosso. Tutti gli anni che abbiamo passato in comunità sono stati di utile al reinserimento.

Le cartelle cliniche vanno archiviate a norma di legge; è un controllo sociale.

Va bene che lo Stato per mantenere queste istituzioni ci vogliono fondi di

capitali di soldi ma anche l’America dispone di materie cliniche.

Manzano è una residenza autonoma che non dipende dagli altri settori.

E tutti gli anni che abbiamo passato in questi posti ci è bastato di lezione.

Le guerre ci hanno fregati. Questi posti di solitudine dimenticati dalla società. Anche come vitto è abbastanza eccellente e chi ci guarda hanno la massima delicatezza con chi rispetta l’ambiente.


Postfazione

La storia di Roberto fa parte di quel ripristino della comunicazione che “ha spostato nella collettività il problematico rapporto con la follia” reso impossibile fino a pochi anni fa con l’innalzamento delle mura del manicomio.

“Fortificazioni non solo materiali, ma barriere di comunicazione tra malato e comunità che Basaglia ha abbattuto nel tentativo di sottrarre ai tecnici e agli specialisti il dominio sulla salute mentale.” come ci dice Nico Pitrelli nel suo recente libro su Basaglia (3).

Ora la “collettività” di questa emergenza forse non è ancora del tutto consapevole e verso una necessaria presa di coscienza di questo problema va la pubblicazione di questo testo.

Il mio intervento si è limitato alla battitura al computer e all’inserimento della punteggiatura lasciando lo stile colloquiale e talvolta sgrammaticato che è quello proprio in cui Roberto si esprime. Tutto questo per evitare di imporre il mio linguaggio su quello dell’altro come troppo spesso ancora viene fatto.

È ora che le storie delle persone che hanno vissuto il dramma dell’internamento manicomiale ci vengano raccontate da loro stesse senza che noi operatori dei servizi di salute mentale a vario titolo ci sostituiamo a loro come accadeva negli ospedali psichiatrici.

La redazione è nata in un pomeriggio estivo senza pretese con una chiacchierata tra un gelato e una sigaretta e come quella chiacchierata è senza pretese.

Luca

1. Iniziano.

2. Tacchini.

3. Nico Pitrelli, L’uomo che restituì la parola ai matti. Franco Basaglia e la comunicazione, Editori Riuniti, Roma, 2004, pag. 22.

Storia di Roberto

da Sconfinamenti n. 6, dicembre 2004

Ero come il milite ignoto della Russia e mi picchiavano.

Roberto

Nel ’41 a mezzanotte sono nato io nel civile, mia mamma ha subito uno shock perché ero nato in tempo di guerra: bombardavano Treviso, Padova, Milano, Roma, Napoli…

Quando non lavoravo da ragazzo andavo al campo scuola a Paderno, o a fare il bagno nella roggia, poi ero elegante: la farfallina celeste, gli occhiali, il cappellino.

Nel 1945 a quattro anni ero all’Olimpia e gli americani applaudivano, andavano per strada, davano cioccolata, sigarette, caricavano le donne: era una meraviglia. Poi finita la guerra sono passati i carri armati in viale Tricesimo, facevano buche nell’asfalto così.

L’Opp di Udine, un distaccamento di partigiani, soldati rientrati dalla Russia e dai distaccamenti tedeschi quando venivano con i treni merci tutti ammucchiati i soldati. Era la milizia, no. Quando vedevano qualcuno ubriaco per le vie, all’una, mezzanotte, li portavano al comando e li interrogavano. Continua a leggere “Storia di Roberto”