TRIESTE: si riapre il caso di Riccardo Rasman

da Il Piccolo

 

NUOVI REPERTI DEPOSITATI DALLA FAMIGLIA DEL MORTO IN VISTA DEL PROCESSO D’APPELLO

Per l’intervento ”sbagliato” a Borgo San Sergio, condannati tre poliziotti a sei mesi con la condizionale

Caso Rasman, spunta il manico di un’ascia

di CLAUDIO ERNÈ

 

Un manico d’ascia e un filo di ferro sporchi di sangue.

Questi due tragici reperti potrebbero consentire ai giudici della Corte d’appello di appello di fare definitiva chiarezza sulla morte di Riccardo Rasman, il giovane di 34 anni stroncato nel suo monolocale di via Grego 38 nel corso di un intervento «sbagliato» della polizia. Era il 27 ottobre 2006 e nel processo di primo grado il giudice Enzo Truncellito ha condannato a sei mesi di carcere con la condizionale nel maggio del 2009 il capopattuglia Mauro Miraz e i suoi colleghi Maurizio Mis e Giuseppe De Biase. Assolta la poliziotta Francesca Gatti. Ora si apre il processo di secondo grado e la famiglia Rasman intende dare battaglia.

Gli avvocati Claudio De Filippi e Giovanni Di Lullo hanno depositato ieri nella cancelleria della Corte d’appello la richiesta di disporre una perizia sul manico dell’ascia sporco di sangue per individuare eventuali impronte digitali. Lo scopo è quello di capire chi ha usato quel bastone. Rasman o i poliziotti?

Anche il filo di ferro continua a suscitare molti interrogativi. Il giovane che pesava 120 chili ed era alto un metro e 85, dopo aver ingaggiato una colluttazione con i poliziotti era stato ammanettato con le mani dietro la schiena e «gli agenti con l’ausilio dei Vigili del fuoco, avevano provveduto a legargli anche le caviglie con un filo di ferro». Successivamente Rasman era stato fatto stendere con la pancia a terra, in posizione prona. In tre gli erano saliti alternativamente sulla schiena per tenerlo fermo col loro peso. Rasman aveva iniziato a rantolare, tanto che le ultime fasi della sua vita erano state sentite distintamente da una vicina di casa.

Quando erano intervenuti gli uomini del «118» era troppo tardi. Il giovane non respirava più ed era cianotico. «Asfissia posizionale» l’ha definita nella perizia il medico legale Fulvio Costantinides. Fin qui, purtroppo, tutto è stato chiarito dalla sentenza di primo grado peraltro non appellata dalla Procura ma solo dai familiari del giovane deceduto. Al contrario non si sa nulla di chi abbia usato il manico d’ascia, trovato dai genitori della vittima sporco di sangue all’interno del monolocale. Nessuno aveva ritenuto di sottoporlo a perizia e i genitori al momento della restituzione dell’alloggio lo avevano trovato a terra.

Secondo gli avvocati della famiglia va approfondito quanto è accaduto nelle prime fasi della colluttazione. L’autopsia ha rivelato infatti che la vittima ha riportato molteplici lesioni in tutte le parti del corpo. Al contrario, i quattro agenti che avevano fatto irruzione nel monolocale, secondo gli avvocati, «non avevano riportato alcun tipo di lesione, nè ecchimosi, nè lacerazioni della divisa d’ordinanza. Si deve, preliminarmente osservare – scrive Claudio De Filippi – che il traumatismo cranico, nonostante non abbia prodotto delle lesioni interne significative, dall’altra doveva essere stato reiterato con particolare consistenza e violenza».

I legali ipotizzano che gli agenti potrebbero aver usato mezzi di offesa in maniera indiscriminata, anche verso parti del corpo delicate come il viso dove sono state rilevate nell’autopsia diverse ferite lacero contuse. Viene citato a questo proposito proprio il manico dell’ascia «rinvenuto sul luogo o il piede di porco usato dai vigili del fuoco per forzare la porta d’ingresso del monolocale». Da lì Riccardo Rasman, assistito dal Centro di salute mentale di Domio, aveva lanciato in strada alcuni petardi in libera vendita e gli scoppi avevano innescato l’intervento della polizia.

 da Info-action