Uno psichiatra esemplare: Radovan Karadžić

 

 
Ieri alla seconda udienza preliminare in vista del processo per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, commessi nella guerra in Bosnia del 1992-1995, è apparso Radovan Karadžić: psichiatra di formazione junghiana con numerosi titoli anche di istituzioni internazionali (vinse ad esempio una borsa di studio alla Columbia University e fu membro della Società londinese di analisi di gruppo o così diceva perlomeno) che alla faccia della psicologia del profondo usava senza troppe remore – caso non isolato del resto – la terapia elettro convulsivante. Noto per la sua spiccata propensione a mentire, il suo doppio petto grigio (pare sempre lo stesso), l’amore per l’alcol, il gioco d’azzardo e i film pornografici (sua moglie è pure una psichiatra e curiosamente esercitava la professione medica come sessuologa).
 
Karadžić è a mio parere una figura paradigmatica: uno degli anelli di congiunzione tra crimini di pace e crimini di guerra; tra razzismo biologico (sodale del dottor Karadžić era – ed è dal momento che non ha mai abiurato le sue idee razziste nei confronti dei musulmani, considerati “inferiori e biologicamente di un valore minore rispetto al popolo serbo” – la biologa Biljana Plavšic ex presidente della Repubblica Srpska) e scienza psichiatrica (nel nazionalismo serbo ha un illustre precedente nello psichiatra Jovan Rašković leader della rivolta serba nelle Krajine, che pubblicò deliranti teorie razziali in un libretto dal titolo Luda Zemlja (Una nazione folle), con la pretesa di applicare le sue personali categorie psichiatriche al programma ideologico dei nazionalisti serbi in Bosnia. Fondò il Partito democratico serbo e nel 1990 insieme a Slobodan Miloševic e allo storico ultranazionalista Milorad Ekmecic ne impose Karadžić come presidente); tra internamento, concentramento, sterminio ed eugenetica.
Responsabile occulto – ma neppure troppo infatti questo è uno dei principali capi di imputazioni che gli pesano sulle spalle al tribunale de L’Aja – delle atrocità successe a Srebrenica (42.000 deportati e pare oltre 10.000 morti che ha ordinato tranquillamente di ammazzare in modo tanto barbaro per il semplice motivo che egli ritiene le sue vittime escluse dalla categoria umana) e di tutta la politica di pulizia etnica messa in atto da miliziani serbo-bosniaci e, in parte, dall’esercito jugoslavo agli ordini del generale Ratko Mladić.
Dice Mario Reali psichiatra basagliano: “Il rapporto tra psichiatria e pulizia etnica non è una grossa novità. Il grande precedente storico è il legame tra psichiatria e nazismo. Anche se c’è differenza tra pulizia etnica-psichiatria e psichiatria-nazismo, tuttavia il filo conduttore è lo stesso: la tecnica di assoggettamento dell’individuo.”
E ancora: “Come non associare l’eliminazione in Bosnia di migliaia di malati di mente da parte dei serbi al fatto che il loro leader era uno psichiatra di formazione tradizionale è cioè uno che vede il manicomio come un campo di concentramento? Non ho le prove, ma è lecito supporre che egli sia stato il responsabile della pianificazione della pulizia etnica. Chi ha dato l’ordine di utilizzare i manicomi come caserme? [Inoltre, a quanto testimonia Carla Del Ponte (La caccia. Io e i criminali di guerra, Feltrinelli, Milano, 2008, pag. 49-50), tra i miliziani serbi in Bosnia pare ci fossero anche “alcuni […] psicopatici tirati fuori da manicomi e prigioni” rimanendo in qualche modo sempre agli ordini di uno psichiatra.]
Uno psichiatra come Karadžić era certamente l’uomo ideale per i suoi mandanti di Belgrado che avevano per obiettivo l’eliminazione della presenza etnica che ostacola va l’occupazione del territorio. In questa opera di annientamento, di cancellazione dell’identità uno psichiatra garantisce un sicuro supporto tecnologico e quindi ordina di smantellare la cultura, la religione, l’habitat e cioè cimiteri, archivi, istituzioni: eliminazione fisica dei segni caratterizzanti, fino agli odori e ai sapori. Mi vengono in mente le tecniche di sradicamento, di perdita dell’appartenenza, applicate in certi manicomi dove, già al momento dell’accoglienza, vengono eliminati tutti i segni del passato, compresi i vestiti.
Anche gli stupri sono stati pianificati dall’alto, con procedure dal preciso valore simbolico,da manuale che presuppongono conoscenze accademiche della psicologia collettiva e della manipolazione. Lo stupro, nelle campagne dell’esercito nazista, non era progettato in modo tanto raffinato.” (Marzio G. Mian Karadžić. Carnefice psichiatra poeta, Mursia, Milano, 1996, pag.109)
Teorico dello stupro etnico quindi – non esistono dati precisi ma si reputa che, senza contare il numero di ragazze scomparse tuttora non quantificato, fino a 50.000 donne bosniache ne siano state vittima – con l’obiettivo di distruggere anche psicologicamente le popolazioni delle Krajine e della Bosnia arrivando a prevedere anche lo stupro sistematico fatto in pubblica piazza da miliziani serbi talvolta compaesani delle donne vittime della violenza per rendere – se possibile – ancora più insopportabile il delitto. Donne poi rifiutate dalla comunità locale e che hanno causato la morte per quelle di loro che hanno cercato di resistere (esistono ritrovamenti di numerose fosse comuni con resti perlopiù di donne alcune delle quali decapitate e in molti casi anche di ragazzine di 14 anni) e in tanti casi il suicidio dovuto alla mancanza di protezione, supporto e ascolto – denunciata anche dal relatore speciale alla Commissione dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite Tadeus Mazowiecki che per protesta di fronte alla sordità dei suoi referenti si dimise nel luglio 1995 – durante e dopo la guerra (oltre al loro mancato intervento in orge organizzate dai serbi di Karadžić di cui erano a conoscenza pare che ci siano stati stupri compiuti direttamente anche da membri della forza internazionale).
“In Bosnia-Erzegovina gli stupri non furono una conseguenza del conflitto, ma una strategia nel contesto della pulizia etnica. […] In Bosnia gli stupri sono stati il frutto di un piano studiato con lo scopo di dimostrare, all’intera comunità musulmana bosniaca, l’incapacità dei componenti maschili di difendere la parte femminile. La strategia perversa consisteva nell’introdurre elementi psicologici per annientare la nazione cui la donna apparteneva. I serbi conoscevano a perfezione la cultura della donna bosniaca, densa di rigidi principi religiosi, il valore sacro della famiglia, l’altra considerazione dell’onore e della dignità personale.”(Angelo Lallo e Lorenzo Toresini, Il tunnel di Sarajevo. Il conflitto in Bosnia-Erzegovina una guerra psichiatrica?, nuova dimensione, Portogruaro (VE), 2004, pag. 72)
 
E che dire di Sarajevo che visto l’impossibilità di allontanarsene e la costante minaccia di cecchini e mortai è stata nei fatti una grande istituzione totale, laboratorio di teorie psichiatriche e in cui l’assedio aveva creato un clima tra la popolazione che ovunque altrove sarebbe stata riconosciuta come paranoica.
 
“Un mio paziente, che non vedevo da tempo, un giorno venne in ambulatorio e mi chiese di ricoverarlo perché i vicini di casa, accusatolo di dare segnali al nemico con la luce delle candele, lo avano percosso a sangue. In realtà lui con la candela stava cercando qualcosa da mangiare perché aveva fame. Era consapevole di stare bene, ma per non essere maltrattato chiese il ricovero.”
 
Racconta lo psichiatra Slobodan Loga direttore della Clinica Psichiatrica di Sarajevo in cui era impegnato Karadžić che all’inizio della guerra la fece bombardare per vendetta verso colleghi e superiori che ne avevano impedito a suo parere la crescita professionale ed accademica in uno scontro interno alla classe medica più esplicito e cruento che altrove.
Ai suoi ordini erano pure i cecchini abilitati a sparare lungo lo Sniper Alley detto appunto il “viale dei cecchini” per eliminare i “diversi”: e a Sarajevo il musulmano – che in una poesia di alcuni anni prima definisce “la selvaggina” – è il diverso per eccellenza (per ogni musulmano ammazzato i cecchini riscuotevano una taglia che poteva arrivare fino a 500 marchi).
“Sarajevo può essere letta come il manicomio lager e Karadžić diventa principe di una psichiatria votata alla pulizia etnica, professione ideale per distinguere e creare differenze. Ecco le città pulite da chi disturba. Lo psichiatra seleziona i due mondi, usa la violenza che la legge gli regala per schiacciare i deboli. Ma con la stessa autorità difende i deboli che appartengono alle famiglie potenti.”(Mian cit., pag. 106)

Grazie ad una clausola a latere dell’Accordo di pace di Dayton con la compiacenza di Richard Holbrooke (ex ambasciatore degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite) si è poi trasferito a Belgrado – anche se è quasi assodata la presenza episodica di Karadžić a Pale anche dopo il 1995 – prendendo l’identità di un medico alternativo amante della poesia e del pensiero positivo (Radovan del resto significa “essere felice”…).


Ora la sua latitanza è finita forse più grazie alla situazione politica internazionale (prova ne sia che almeno dal 2000 Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia – e di conseguenza l’Unione Europea e il Tribunale penale internazionale per i crimini nella ex Jugoslavia – erano a conoscenza persino dell’appartamento in cui risiedeva) e alla posizione della Serbia in questo oltre che ad un cavillo dell’accordo summenzionato che alla ricerca di una impossibile giustizia…Radovan Karadžić dunque figura paradigmatica scrivevo all’inizio ma perché? Karadžić è un personaggio eccessivo – una caricatura dello psichiatra della vecchia tradizione secondo Franco Rotelli erede di Basaglia a Trieste – in ogni sua manifestazione ed è proprio questo suo eccesso a farci vedere in modo più chiaro la realtà dell’ideologia psichiatrica: una specie di cartina al tornasole per capire cosa questa sia e cosa possa diventare. Perché Karadžić non è uno psichiatra che ha commesso dei crimini ignobili ma ha commesso dei crimini ignobili PERCHÈ È uno psichiatra. “Ha avuto la formazione scientifica tipica della ex Jugoslavia, molto arretrata: era la psichiatria che predisponeva naturalmente alla definizione del diverso, e quindi alla esclusione, alla negazione di soggettività a esseri umani. Nella vecchia psichiatria si diceva che un uomo era pazzo, che andava rinchiuso e non andava trattato come un essere umano perché non era un essere umano. Nella psichiatria moderna si dice che un individuo è malato e che va curato perché possa riacquistare una sua soggettività, una propria volontà. Comunque lo psichiatra è predisposto alla separazione, alla esclusione, alla negazione della oggettività degli altri.” (Mian cit., pag. 104) Nessun se non uno psichiatra avrebbe potuto avere la stessa freddezza e meticolosità nell’attuare i piani genocidi di pulizia etnica attraverso atti che non possono essere definiti che terroristici strictu sensu, attraverso la creazione di un universo concentrazionario, attraverso l’uso della violenza di genere estremizzata e pianificata presentandosi al mondo negando ogni evidenza dei suoi crimini e mentendo spudoratamente. Solo una persona che per professione è abituata a non riconoscere la soggettività dell’altro ma tutt’al più la sua oggettività poteva rendersi responsabile di quanto fatto dallo psichiatra di Pale.  

Bibliografia:
l        Angelo Lallo e Lorenzo Toresini, Il tunnel di Sarajevo. Il conflitto in Bosnia-Erzegovina una guerra psichiatrica?, nuova dimensione, Portogruaro (VE), 2004
l        Carla Del Ponte La caccia. Io e i criminali di guerra, Feltrinelli, Milano, 2008
l        Marzio G. Mian Karadžić. Carnefice psichiatra poeta, Mursia, Milano, 1996

Una risposta a “Uno psichiatra esemplare: Radovan Karadžić”

  1. Il rapporto tra potere, esclusione e psichiatria è uno di quei temi che negli ultimi anni è finito ingiustamente nel dimenticatoio. Karadzic è certamente un caso limite ma più in generale, come diceva Basaglia, coloro che ritengono di curare una “malattia mentale” sono in realtà delle pedine dell’esclusione e del controllo sociale”.

    Complimenti per il post.

    Ciao.

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