uno stato di forte istituzionalizzazione

  Notte al reparto 6: mentre il vostro Lazaric si occupava di un utente-ospite-malato-matto o come altro lo si voglia chiamare che sta attraversando un periodo non proprio brillante (proliferazione di deliri, difficoltà ad orientarsi nello spazio, mancanza di controllo degli sfinteri, talvolta stato di agitazione psico-motoria… per utilizzare un lessico che detesto ma insomma giusto per inquadrare la situazione) un altro si allontana (IO non chiudo le porte e se lo faccio la chiave la lascio nella toppa).

Non me l’aspettavo però capita che si faccia due passi tra le lappole, l’ortica e la canapa selvatica che circondano il reparto e in fin dei conti la sera è calda ed invita ad uscire a godersi la brezza: tornerà presto come al solito penso.
Invece dopo un paio d’ore ancora non è tornato. Va beh era un paio d’anni che non faceva uscite fino in città ma comunque si sa muovere e in fondo mi fa anche piacere che esprima questa esigenza di normalità allontanandosi.
Dopo pochi minuti da quando ho spento la luce interna (quelle esterne che in questi casi vengono lasciate accese erano già spente visto che – bruciate da mesi – nessuno ha pensato di sostituirle nonostante le segnalazioni) quando sto per coricarmi sulla scomoda brandina che c’è in reparto per il riposo dei custodi suona il campanello. È l’una passata e mi alzo in fretta visto che a quest’ora della notte quando qualcuno si è allontanato viene riportato da spicci signori in divisa che avevo avvisato di prammatica. Un po’ mi stupisco quando invece aprendo la porta vedo oltre al "fuggiasco" il Líder máximo della cooperativa con una ex-collega e un po’ la cosa mi scoccia pure e quasi avrei preferito i piedi piatti a cui in fin dei conti non devo rendere conto. Si vede che il nostro pazzerello è andato in città penso. Dico “grazie e buona notte” e se ne vanno. Non ritengo di chiedere ulteriori spiegazioni sul dove e perché l’hanno recuperato: non mi interessano questi dettagli da accalappiamatti.
Scoprirò poi che in realtà il nostro uomo in fuga così in fuga non era infatti era andato solo fino a uno degli altri reparti che costellano il verde del manicomio e ivi trattenuto da un collega un po’ troppo zelante il quale solo dopo un’ora e mezza lo ha rilasciato facendolo accompagnare dai suoi due sodali che probabilmente gli alleviavano la notte in ospedale psichiatrico. Lo zelo del collega si è spinto fino a sollevare rimostranze verso i miei diretti superiori per il mio atteggiamento lassista: tanto lassista non solo da aver fatto “fuggire” un matto ma da non aver neppure telefonato negli altri reparti per avere notizia del transfuga e da non essermi neppure spinto alla sua caccia per poltrire [sic].

Al di là delle considerazioni nello specifico sul comportamento del collega questo esempio che si ripete più o meno analogamente ogni giorno nei servizi di salute mentale dimostra in qualche modo un falla nell’idea dell’approccio aspecifico alla persona folle.
È triste dovere constatare come personale privo di formazione medico-psichiatrica, infermieristica o comunque tecnica si dimostri più solerte nel rinchiudere degli psichiatri o degli infermieri. L’idea era che personale non condizionato da paradigmi pseudoscientifici avrebbe dovuto affrontare l’incontro con la persona folle privo di sovrastrutture stigmatizzanti invece spesso ne esce che questi lavoratori sociali sono più psichiatrizzanti degli psichiatri stessi. C’è da dire che anche questo caso rientra a pieno titolo nel capitolo più ampio dell’introiezione da parte del proletariato – per usare un termine un po’ vintage ma a cui io sono affezionato – della cultura borghese (per rimanere sempre all’interno di una fraseologia dei tempi andati).
Però temo che gli operatori sociali siano in un certo senso anche più psichiatrizzati degli utenti. Temo infatti che tanta parte delle pratiche di chiusura messe in atto dagli operatori sociali siano dovute allo stato di forte istituzionalizzazione (eh già proprio come nei manicomi…) vissuto da questi che dovendo rendere conto ai propri superiori (che vivono le cooperative troppo spesso come cosa propria) a loro volta succubi fino al delirio paranoico del ricatto dell’appalto, per paura di vedersi attribuite responsabilità non proprie usano pratiche segreganti e talvolta violente (se non altro in senso lato).
Il fatto è che a differenza di non molti anni fa il personale meno qualificato è anche privo di una cultura (coscienza?) sul senso di quanto va facendo ogni giorno e che sostanzialmente per paura (e la paura non è quella della persona folle che pure può avere una certa incidenza), oltre che per ignoranza e ignavia, cade in queste pratiche che sono evidentemente più “comode” per tutti anche per gli operatori sociali se sono abbastanza ottusi o riescono a sopprimere ogni sensibilità e intelligenza. Di certo non per gli “utenti” è inutile dirlo.
Tu interni io libero recita il titolo di un libro fotografico apologetico dell’esperienza basagliana. Ma se per 30 anni fa il tu e l’io in questione avrebbero forse (e sottolineo forse) potuto essere distinti ora è molto più difficile e pare che ogni atto e pratica vagamente liberatori sono solo frutto di slanci volontaristici personali di chi li compie senza che nessun altro (nonostante la tanto discussa ed esaltata legge 180 e relativi progetti obiettivo) se lo aspetti e se ne fotta.
Chi è l’io che libera oggi? Gli psichiatri che delegano ai propri sottoposti la gestione pressoché totale di psichiatria residenziale ma in buona parte pure territoriale e più che ciarlare in modo autoreferenziale a convegni o prescrivere psicofarmaci poco fanno? Gli infermieri che sindacalmente forti e tendenzialmente a destra nella maggioranza dei casi si interessano più a come evitare di avere grane di qualche tipo che ad altro (e in questo contesto chi glielo fa fare del resto)? Gli operatori sociali con scarsissimo potere contrattuale – spesso minore addirittura di quello degli utenti che dovrebbero tutelare – su cui sono scaricati i pesi più gravosi per tipo di utenza e qualità del lavoro e che privi di una rete (servizi da un lato sindacato dall’altra) e come dicevo di preparazione politico-culturale su cui appoggiarsi – vengono/si sentono schiacciati dalle responsabilità?
Mi pare che nelle pratiche dei servizi di salute mentale al di là delle mistificazioni basagliane o pseudobasagliane di liberatorio non ci sia nulla – ammesso e sono molto scettico che ci sia mai stato… – e questo è un fatto di cui prendere atto anche se forse sono solo l’ultimo a farlo…