LA FOLLIA DELLA FOTOGRAFIA/1: Lo Sguardo

Volendo obbligarmi a commentare le foto d’un reportage sui «casi urgenti», io straccio le note man mano che le scrivo. Come! non c’è niente da dire sulla morte, sul suicidio, sulla ferita, sull’incidente? No. Non ho niente da dire su quelle foto in cui vedo camici bianchi, lettighe, corpi stesi per terra, vetri rotti, ecc. Se solo ci fosse uno sguardo, lo sguardo di un soggetto, se solo qualcuno, nella foto, mi guardasse! La Fotografia ha infatti la facoltà – che va man mano perdendo, dato che ormai la posa frontale è giudicata arcaica – di guardarmi dritto negli occhi (e qui abbiamo una nuova differenza: nel film, nessuno mi guarda mai: è proibito – dalla Finzione).
Lo sguardo fotografico ha qualcosa di paradossale che talvolta ritroviamo nella vita: l’altro giorno, in un caffè, un adolescente, solo, esplorava con gli occhi tutta la sala; a tratti il suo sguardo si posava su di me; in quel momento avevo la certezza che egli mi stesse guardando senza tuttavia essere sicuro che mi stesse vedendo: stortura inconcepibile: come è possibile guardare senza vedere? Si direbbe che la Fotografia separi l’attenzione dalla percezione e che presenti solo la prima, la quale tuttavia è impossibile senza la seconda; cosa aberrante, essa è una noesi senza noema, un atto di pensiero senza pensiero, un intendimento senza obiettivo finale. E tuttavia è proprio questo movimento scandaloso a determinare la più rara qualità di un’aria. Il paradosso è questo: come si può avere l’aria intelligente, senza pensare a niente di intelligente? Come è possibile averla guardando quel pezzo di bachelite nera? Il fatto è che, facendo l’economia della visione, lo sguardo sembra essere trattenuto da qualcosa d’interiore. Andé Kertész Il cagnolino, Paris, 1928Quel ragazzino povero che tiene in braccio un cagnolino appena nato e vi appoggia la sua guancia (Kertész, 1928), guarda l’obbiettivo con occhi tristi, gelosi, spauriti: che pensosità patetica, straziante! In effetti, egli non guarda nulla; trattiene dentro di sé il suo amore e la sua paura: ecco, lo Sguardo è questo.
Ora, se è inesistente (e a maggior ragione se dura, se, con la fotografia, attraversa il Tempo), lo sguardo è sempre virtualmente pazzo: esso è al tempo stesso effetto di verità ed effetto di follia. Nel 1881, animati da un bello spirito scientifico e procedendo in un’inchiesta sulla fisiognomia dei malati, Galton e Mohamed pubblicarono alcune tavole di volti.
Ovviamente, si concluse che la malattia non vi si poteva leggere. Ma siccome tutti quei malati mi guardano ancora, a quasi cento anni di distanza, io ho invece l’idea inversa: quella che chiunque guardi dritto negli occhi è pazzo.
foto di Francis Galton
Il «destino» della Fotografia sarebbe dunque questo: facendomi credere (ma una volta su quante?) che ho trovato «la vera fotografia totale», essa crea l’inconcepibile confusione tra realtà («Ciò è stato») e verità («È esattamente questo!»); essa diventa al tempo stesso constatativa ed esclamativa; essa porta l’effigie a quel punto di follia in cui l’affetto (l’amore, la compassione, il lutto, l’impeto, il desiderio) è garante dell’essere. La Fotografia si avvicina allora effettivamente alla follia, raggiunge la «verità folle».
Roland Barthes La chambre claire. Note sur la photographie, Seuil, Paris, 1980; trad. it. di Renzo Guidieri La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino, 1980, § 46, pag. 111-115