LA FOLLIA DELLA FOTOGRAFIA/3: La Fotografia addomesticata

La società si adopera per far rinsavire la Fotografia, per temperare la follia che minaccia ad ogni istante di esplodere in faccia a chi la guarda. Per far questo, essa ha a disposizione due mezzi.
Il primo consiste nel fare della Fotografia un’arte, giacche nessun’arte è pazza. Di qui l’insistenza del fotografo a rivaleggiare con l’artista, uniformandosi alla retorica del quadro e al suo modo sublimato di esposizione. In effetti, la Fotografia può essere un’arte: quando in essa non vi è più alcuna follia, quando il suo noema è dimenticato e, di conseguenza, la sua essenza non agisce più su di me: credete forse che davanti alle «Promeneuses» del comandante Puyo, io mi turbi ed esclami «È stato»? Il cinema partecipa a quest’addomesticamento della Fotografia – per lo meno il cinema di finzione, proprio quello di cui si dice che sia la settima arte; un film può essere pazzo per artificio, mostrare i segni culturali della follia: non lo è mai per natura (per condizione iconica); esso è sempre l’esatto contrario di un’allucinazione; esso è semplicemente un’illusione; la sua visione è sognante, non ecmnesica.
L’altro mezzo per far rinsavire la Fotografia, è di generalizzarla, gregarizzarla, banalizzarla, al punto che di fronte a lei non vi sia più nessun’altra immagine rispetto ala quale essa possa spiccare, affermare la sua specialità, il suo scandalo, la sua follia. Questo è appunto ciò che accade nella nostra società, in cui la Fotografia schiaccia con la sua tirannia le altre immagini: niente più stampe, niente più pittura figurativa, se non ormai per affascinata (e affascinante) sottomissione al modello fotografico. Osservando gli avventori di un bar, qualcuno mi ha detto giustamente: «Guarda come sono spenti; al giorno d’oggi, le immagini sono più vive delle persone». Uno dei segni distintivi del nostro tempo è forse questo rovesciamento: noi viviamo conformemente a un immaginario generalizzato. Prendiamo gli Stati Uniti: là, tutto si trasforma in immagini: là, esistono, si producono e si consumano solo immagini.
Robert Mapplethorpe Thomas (1986)
Esempio estremo: provate a entrare in un locale porno di New York; non ci troverete il vizio, ma soltanto quadri viventi (da cui Mapplethorpe ha tratto lucidamente alcune sue fotografie); si direbbe che l’anonimo individuo (niente affatto un attore) che vi si fa incatenare e frustare concepisca il suo piacere solo se questo piacere coincide con l’immagine stereotipata (logora) del sado-masochista: il godimento passa per l’immagine, ecco il grande mutamento. Un simile rovesciamento mette necessariamente in ballo la questione etica: non perché l’immagine sia immorale, irreligiosa o diabolica (come taluni hanno affermato all’avvento della Fotografia), ma perché, se generalizzata, essa derealizza completamente il mondo umano dei conflitti e dei desideri, mentre invece vuole illustrarlo. Ciò che caratterizza le società cosiddette avanzate, è che oggi tali società consumano immagini e non più, come quelle del passato, credenze; esse sono dunque più liberali, meno fanatiche, ma anche più «false» (meno «autentiche») – cosa che, nella coscienza comune, noi traduciamo con l’ammissione di un’impressione di noia nauseante, come se, universalizzandosi, l’immagine producesse un mondo senza differenze (indifferente), da cui può quindi levarsi qui e là solo il grido di anarchismi, marginalismi e individualismi: aboliamo le immagini, salviamo il Desiderio immediato (senza mediazione).
Pazza o savia? La Fotografia può essere l’una o l’altra cosa: è savia se il suo realismo resta relativo, temperato da abitudini estetiche o empiriche (sfogliare una rivista dal barbiere, dal dentista); è pazza se questo realismo è assoluto, e, per così dire, originale, se riporta alla coscienza amorosa e spaventata la lettera stessa del Tempo: moto propriamente revulsivo, che inverte il corso della cosa, e che chiamerò per concludere l’estasi fotografica.
Le due vie della Fotografia sono queste. Sta a me scegliere se aggiogare il suo spettacolo al codice civilizzato delle illusioni perfette, oppure se affrontare in essa il risveglio dell’intrattabile realtà.”

Roland Barthes La chambre claire. Note sur la photographie, Seuil, Paris, 1980; trad. it. di Renzo Guidieri La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino, 1980, § 48, pag. 117-119