“Di Gorizia mi piacevano molto certe atmosfere, i suoi giardini con le palme, le belle ville risalenti all’epoca in cui la città era ancora una località di soggiorno invernale, la Nizza austriaca. Con Gorizia avevo anche un rapporto affettivo perché era un altro luogo molto legato alla storia della mia famiglia, ma questi sentimenti erano sempre accompagnati da un senso di disagio nel vederla così indissolubilmente associata soltanto alla retorica e alle menzogne della storia, piccola città così poco conosciuta, relegata nella marginalità, stravolta culturalmente da un violento nazionalismo italiano che aveva soffocato la sua friulanità, aveva ghettizzato la sua slovenità e aveva completamente cancellato dalla memoria la sua secolare componente culturale tedesca. A Gorizia la piazza Grande, Travnik in sloveno, Am Anger in tedesco, era diventata Piazza della Vittoria e l’Isonzo che nell’omonima lirica di Carlo Michelstaeder sfociava nel ‘mare senza onde’ era diventato un ‘fiume sacro alla patria’: quell’aggettivo ‘sacro’ stava lì scolpito sul marmo per esaltare un sacrificio e allo stesso tempo per nascondere l’orrore che per attraversarlo o per difenderlo centinaia di migliaia di giovani vite erano state mandate al massacro dalle classi dominanti, le quali non sarebbero mai state giudicate per criminali di guerra. La retorica nazionalista basava la sua verità su una menzogna: quell’assurdo bagno di sangue aveva avuto un senso perché era stato l’inevitabile tributo e il prezzo necessario per realizzare un’idea di nazione. E si continuava a chiamare vittoria una bruciante sconfitta della civiltà”:
Hans Kitzmüller “Viaggio alle incoronate”, Santi Quaranta, Treviso, 1999, pp. 158-159