
La sala d’aspetto all’ingresso è una sala dal soffitto altissimo con sedie male assortite e in cui spiccano sulle pareti grandi lapidi di marmo degli anni ‘20-’30 con i nomi dei donatori per la costruzione dell’edificio (per lo più nobili o notabili, ma anche associazioni di commercianti, banche locali, religiosi…) e accanto all’ingresso una porta con la scritta più recente: “FARMACIA”…
Ivan tiene la testa tra le mani e singhiozza. Io non riesco ad essergli d’aiuto: durante il percorso mi ha chiesto di lasciarlo stare e io rispetto questa sua richiesta (in più lo conosco da talmente poco tempo e la nostra relazione e talmente fragile che non saprei proprio che dire o fare). Attendiamo in un silenzio irreale che qualcuno si faccia avanti. In realtà la porta che dà sull’interno è aperta ma nessuna delle persone che attendono prova neppure a sporgersi oltre. Nonostante avessimo avvertito del nostro arrivo e nonostante ci siano già altre persone in attesa non si vede nessuno. Finalmente – è passata circa una decina di minuti – arriva una infermiera e invita Ivan nell’ambulatorio della psichiatra il cui nome appare su una targa fissata sulla porta.
Ivan è disperato singhiozza e piange sommessamente esprimendo la sua difficoltà ad “andare avanti così”. La psichiatra – e io con lei – non riusciamo a comunicare con lui.
Come prima cosa gli viene proposto un ricovero in diagnosi e cura – il reparto psichiatrico ospedaliero che qui è chiuso e con telecamere e citofono all’ingresso – e un po’ mi stupisco che sia solo una proposta che ovviamente Ivan rifiuta. In seconda battuta gli si prescrive una flebo di EN (non so e non ho voluto sapere in che quantitativo ma non avevo mai visto una flebo così grossa in “psichiatria”). In ogni caso Ivan pian piano si calma: il suo respiro si fa meno affannoso e lentamente raggiunge la calma regolarità del sonno. Ivan dorme per circa un’ora durante la quale io mi aggiro solitario – non c’è nessuno a parte me – per i vuoti corridoi del centro di salute mentale: tanti “lavoretti” fatti al centro diurno mi intristiscono ma se non altro danno colore in un contesto di semioscurità e grigiore. Da una finestra noto nel grande e abbandonato giardino un paio di alberi abbattuti dalla tempesta di vento e neve dei giorni precedenti.
Appena Ivan si sveglia cerco qualcuno: trovo le infermiere che si sono chiuse nella stanza della “farmacia” a consumare il loro pasto frugale poi riesco a parlare di nuovo con la psichiatra. Assisto al colloquio che ha con Ivan: il colloquio verte esclusivamente sulla terapia farmacologica. Non una parola, una domanda, una considerazione sul perché di questa sua richiesta di aiuto. Ce ne andiamo così con solo un appuntamento per la settimana successiva e un enorme senso di vuoto.
Forse l’ansia di Ivan è ora sedata per la mia c’è poco da fare.
Sempre di più mi rendo conto che qui il farmaco è il perno delle relazioni (e tristemente non solo tra personale medico o paramedico).
Ho come l’impressione che se si togliesse dalle relazioni tra operatori (a vario titolo) e “utenti” il perno del farmaco non resterebbe granché… tutto ci gira attorno…
Tutto: problemi e sopratutto soluzioni passano esclusivamente e preventivamente (oltre che abbondantemente) attraverso il farmaco per la più scontata delle risposte preformate…